Teatro
A Genova e Roma il teatro e la questione dell’Altro
Al momento di scrivere queste note non è ancora chiaro il destino della Sea-Watch3, con la capitana Carola Rackete che intende violare il blocco al limite delle acque territoriali italiane. Difficile non mettere tutto insieme, quando si parla di immigrazione, di diritti umani, e di teatro. Però c’è un dato di fatto: probabilmente proprio il teatro, la pratica scenica quotidiana – declinata negli spazi istituzionali o in quelli marginali e alternativi – è lo strumento che più di ogni altro sembra rivelarsi utile a una riflessione (e una azione) sulla questione immigrati.
La nostra scena, infatti, agisce e reagisce da tempo alla situazione.
Sin dalla fine degli anni Ottanta, direi, con le prime forme di teatro “integrato” delle Albe di Ravenna (quel memorabile RUH-Romagna + Africa uguale, o il bellissimo Griot Fuler), e poi via via sempre più con laboratori, allestimenti, interventi sul “campo” fino ad oggi con molti lavori anche di qualità, come lo struggente – tanto per fare un solo esempio – L’abisso di Davide Enia.
Insomma, il teatro si è fatto carico dell’incontro con l’Altro, di pensare a modelli sociali sostenibili, di andare in controtendenza rispetto alle politiche di paura e chiusura, di ignoranza e violenza con cui simili questioni vengono spesso trattate.
È un bisogno sentito e condiviso e possiamo dire che si sta vivendo una fase di “maturità”, di consapevolezza della situazione. A fronte di quella che rischia di diventare una tendenza, addirittura una “moda”, ossia il far teatro con gli immigrati perché “adesso va così” o per un volontarismo manierato che fa più danni che non benefici, c’è infatti anche chi seriamente lavora, ampliando e affrontando la complessità del tema. In queste ultime stagioni ci sono stati tanti, tantissimi, troppi allestimenti che leggevano e leggono l’Altro solo in quanto “immigrato”, relegandolo e fossilizzandolo in quel ruolo: con il viaggio, la sofferenza, il dolore, il mare, la canottiera bianca e la coperta termica, ossia formalizzando l’Immigrato solo come portatore di problemi e non di cultura. Ma c’è anche chi, al contrario, tenta un passo ulteriore e ha avviato un percorso più ampio, difficile, che chiama in causa proprio la cultura “diversa”, ovvero quel che lo Straniero può portare.
È questo uno dei tentativi necessari da fare e condividere: non imporre il nostro sguardo, per quanto solidale e amicale, sull’Altro, piuttosto ricevere, saper leggere, il patrimonio culturale di cui l’Altro è espressione e di cui si fa portatore. L’esempio storico, nel teatro, è ancora il Maestro Peter Brook, la sua instancabile voglia di confrontarsi con le drammaturgie africane o con i classici asiatici con un gruppo di attori e attrici in cui il colore della pelle non era elemento stigmatizzante né retorico.
La faccio breve, perché il discorso è lungo: nel volgere di pochi giorni ho visto due spettacoli, e due iniziative, sicuramente preziose.
A partire dal Festival Suq, nel bellissimo porto antico di Genova, strabiliante e divertente manifestazione – con grande seguito di pubblico: oltre 70mila presenze – che mette assieme cibo, arte, letteratura, politica, teatro, danza, musica, dialogo all’insegna della varietà e diversità di linguaggi e culture del mondo. Mi piace definirla una “festa della possibilità”, ovvero di una realtà possibile, non perfetta ci mancherebbe, ma vivibile, concreta, umana. Dal Mozambico al Senegal;dalla Sardegna, con Su Sartiau alla Liguria, con i cori del Trallallero; dal Rap alla saudade brasiliana, al Suq c’è spazio per tutti o quasi. Scambi, incontri, ascolto, confronto, seduzioni e mescolamenti sono i territori d’indagine.
Nel bel programma di quest’anno, allora, lo spettacolo d’apertura è stato un segno forte: Da Madre a Madre, il coraggio e la forza delle donne, ieri e oggi è stato ideato da Carla Peirolero, anche direttrice del Festival, a partire da un bellissimo libro, L’anello forte, di Nuto Revelli. La Peirolero ne ha tratto una storia, scritta con Bintou Quattara e Irene Lamponi, anche interpreti in scena, che è davvero un confronto, sul filo della memoria e delle emozioni. Allestito nella piccola chiesa di San Pietro in Banchi, la vicenda narra di un imminente matrimonio “misto” – orribile espressione – e diventa presto l’incontro di due madri, di due tradizioni, di due amori per i propri figli. Piccoli riti, solidarietà, risate: non vediamo il futuro sposo, ma solo la giovane promessa: e mentre si prepara l’allestimento, c’è tempo per evocare il passato, le antenate, le vite familiari nei rispettivi paesi. E si scopre che, in fondo, le cose non sono così diverse.
C’è una tenerezza, nel ricordo delle povertà, delle fatiche, del lavoro, nell’apprensione per i figli che crescono, che accomuna e commuove. E ancora racconti di streghe e di malocchio, proverbi e saggezze popolari (“se non puoi cambiare il vento, cambia le vele”), malattie e speranze, che mostrano – semmai ce ne fosse bisogno – la forza di queste donne. Ma ci interroga anche sulla forza delle nuove generazioni, di quei figli che, nella storia, saranno la coppia “mista”: come verrà accolto, giudicato, rispettato, quel matrimonio? E soprattutto perché dovrebbe essere “giudicato”?Brave in scena Peiroleiro e Quattara (le madri) e Lamponi (la figlia), semplici e presenti, intime e immediate, con grande aderenza alla narrazione.
L’altro evento di cui parlare è Chiamami X, il “saggio” di chiusura del progetto di teatro comunitario Città sospesa organizzato da Asinitas Onlus a Roma, guidata da Cecilia Bartoli. All’interno del Teatro India, affollato di pubblico, con il sostegno del Teatro di Roma, il lavoro è un attraversamento di Una tempesta, la celebre rilettura del classico shakespeariano fatta da Aimé Césaire nel 1968. È bello riscoprire l’opera intellettuale e teatrale di questo uomo politico, poeta, drammaturgo martinicano, instancabile animatore della battaglia anticolonialista assieme a Leopold Sengor.
Una Tempesta di Césaire è ricca di sensazioni rivendicative, non fa sconti, non è compiacente nei confronti del potere del “mago” Prospero, qui visto non tanto come il saggio duca spodestato, quanto, piuttosto, come il seduttivo volto del potere coloniale. Nella versione messa in scena a India, il testo diventa dunque Chiamami X, con evidente rimando non solo a Malcom X ma a tutto il movimento del Black Power, ed è diretto con mano sicura da Sergio Giuseppe Scarlatella (che molti avranno visto in tantissime produzioni di Romeo Castellucci e della Societas) e dalla giovane attrice e regista Assunta Nugnes.
Chiaro, ci sono imperfezioni, approssimazioni, un clima ancora da “esito laboratoriale” (almeno al debutto), ma se quella prova ancora “aperta” cui abbiamo assistito potesse svilupparsi, essere replicata, crescere e respirare, ci troveremmo di fronte a uno spettacolo di grande intelligenza e spessore. Perché non mancano momenti struggenti e poetici, come lo sbarco dopo la tempesta; altri feroci (il rap contro il colonizzatore), o ironici (Calibano che dice: “è finita la pacchia”) e altri ancora di livida intensità, come negli scontri tra Calibano e Ariel – le due posizioni dello schiavo di fronte al potere – oppure nella dialettica, fino a un simbolico braccio di ferro, tra Prospero e Calibano.
Ed è una bella intuizione rendere plurale quest’ultimo personaggio, un coro di sottomessi che non vogliono sottomettersi, che non accettano la schiavitù: bianchi e neri, uomini e donne assieme, perché non è più questione di “colore”, ma di identità e dignità umana. Le isole di Prospero sono ancora tante, e ovunque: nei ghetti e nelle bidonville, nei palazzi del Capitale e nelle strade, ogni giorno. Una immagine, e una responsabilità, cui richiama il bellissimo, commovente finale: tutti assieme, uno accanto all’altro, battendosi il petto al ritmo cupo del battito del cuore. Questione di libertà, certo, ma anche di vita o di morte.
La scrittura di Césaire, allora, che molti studiosi di politica postculturale danno ormai per superata, segnata com’è dalle temperie del novecento, risuona invece, nella nostra Italia perbenista e fascistella, ancora con grande forza. Va dato merito, dunque, ad Asinitas di aver scelto questo testo, di averlo portato in scena con coraggio, cercando finalmente di ascoltare l’Altro e non più solo di raccontarlo.
(la foto di copertina è di Attilio Correnti)
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