Teatro

A Est dell’Eden Latella scova i nostri archetipi

11 Novembre 2019

Siamo tutti figli di Caino, nella “Valle dell’Eden” di John Steinbeck. Così come in quella di Antonio Latella, che all’Arena del Sole di Bologna (produzione ERT, Metastasio e Stabile dell’Umbria) ha smontato e rimontato il romanzo del 1952 – ancora in forma di maratona, ma dimezzata rispetto a “Santa Estasi”: “solo” 8 ore –, nel tentativo di far quadrare, nell’imperfezione della scena, questa catena genetica di colpe, rivalità fraterne, ingiustizie paterne e indifferenze materne. Insomma, i Trask sono una famiglia come tante, come i Lehman di Ronconi e Massini o gli Atridi di “Santa Estasi”, piombati in California dal Peloponneso per proseguire la ricerca indiscreta delle nostre eredità immateriali, risalendo di generazione in generazione fino a dolorosi archetipi che ci riguardano tutti, nessuno escluso.

Così viene fuori che non è tanto il peccato originale, più che previsto nel disegno del paradiso terrestre, ad aver dato inizio a tutto; quanto la violenza originale. E dopo il fratricidio, Caino se ne va a Nod, a Est di Eden (“East of Eden” è il titolo originale del romanzo), “ramingo e fuggiasco”, come si legge verso la fine dei sedici versetti della Genesi che fanno da miccia all’opera di Steinbeck, ma anche all’inconscio ancestrale di chiunque. La violenza esplicita o implicita, che sia evento tangibile, ricordo o premonizione, diventa quindi un motore antropologico delle ragioni dell’uomo e della società – alla Girard – per giunta senza che si riesca a scorgere alcuna possibilità di correzione – alla Franzen – perché i figli sono e saranno sempre destinati a replicare le colpe dei padri.

Sembra questo il motivo conduttore dei due anni di lavoro di Latella e Linda Dalisi, che hanno scommesso su un nuovo spettacolo monstre in cui il pubblico ha giustamente creduto per l’urgenza dei temi, per la profondità della costruzione, ma soprattutto per la soddisfazione di un percorso che attori e spettatori fanno insieme, dalla prima all’ultima battuta del copione.

In quattro lunghi atti, tutti diversi nel tono drammaturgico, Latella muove i suoi attori senza preoccuparsi troppo della continuità formale. Si passa dall’astratta simbologia della prima parte, alla disposizione orizzontale della seconda, con giochi di equilibrio al di là di un sipario tagliafuoco “strehleriano”, bloccato all’ultimo dal tavolo di famiglia; e poi ancora la lezione antropologica e morale della terza parte, fino al puro melò della quarta, che raggiunge finalmente le pagine da cui Kazan ha tratto il film con James Dean, mentre i tecnici si affrettano a ultimare la casa da sogno americano, bianca come in un quadro di Hopper, prima che le luci si spengano per sempre su qualsiasi illusione di riscatto.

Nei primi due atti, del tutto privi di musica, i silenzi si prolungano per svelare “l’oscura presenza” della valle, e la tensione cresce, come il “dolore occulto” di questo mondo in cui tutti i suoni sono irreali e i movimenti degli attori rallentati, finché la grande barriera che blocca gli attori in proscenio cade in pezzi sul palco, quando Adam Trask viene ferito da un proiettile della moglie. Ma dopo questo coup de théâtre, geniale, qualcosa smette di funzionare, e in scena si avverte la tendenza alla didascalia: e quando si vede il trucco, l’incantesimo si spezza. Tanto che l’altra grande sorpresa dello spettacolo, la struttura di una casa calata dall’alto, lascia piuttosto indifferenti. Nel finale Candida Nieri legge in proscenio le ultime battute del copione, brechtianamente, mentre in sala le luci si riaccendono: forse la letteratura a teatro non è altro che finzione di una finzione, due meno fanno un più e la verità può tornarci addosso con tutta la sua forza.

Del resto nello spettacolo si ribadisce spesso che la verità non va mai data per buona, ma va capita: proprio per questo Steinbeck ha raccontato la storia di Caino e Abele ai suoi figli, usandola poi come scusa per il suo più grande romanzo. E sempre per questo Latella l’ha voluta mettere in scena, dal paradiso perduto della prosa alle vive e vibranti sbavature del palcoscenico. Solo che stavolta il gioco teatrale si svela senza magia, con qualche affettazione, e quando arriva in fondo alla sua corsa ha ormai perso gran parte della sua efficacia. Eppure questo non toglie valore al progetto: la direzione resta comunque fertile; e chissà, forse l’“Amleto” del Piccolo potrà ripartire proprio da qui.

Eroici gli attori, soprattutto Michele Di Mauro, sempre a un passo dall’autocompiacimento e magnifico nel suo continuo trattenersi, e Massimiliano Speziani, nella parte dolceamara del servitore cinese Lee. Bene anche i Caini di Christian La Rosa, Charles e Caleb Trask, e l’Adam Trask di Annibale Pavone, sicuramente il personaggio dalle trasformazioni più complesse. Un po’ meno centrati Emiliano Masala, diviso tra personaggi secondari tra cui il capostipite Cyrus Trask, cui spetta però lo straordinario primo passo claudicante dello spettacolo, come le interpreti dei personaggi femminili Elisabetta Valgoi e Candida Nieri.

 

Foto di Brunella Giolivo.

 

 

 

 

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