Teatro
A che serve il Teatro?
Cercare al buio qualcosa che non c’è, e trovarlo. Diceva più o meno così, col solito gusto del paradosso, il genio di Ennio Flaiano. E la definizione mi sembra più che mai calzante per il Teatro.
Riapro questa rubrica, per provare a riflettere proprio sul quel che resta, quel che è, semmai quel che sarà il Teatro. Non è questione solo per addetti ai lavori: il teatro è assembramento, è piazza, polis. Ovvero lo spazio e il tempo dell’incontro tra esseri umani.
Momento diverso dalla routine quotidiana, il Teatro richiede un “andare verso” che si tramuta in una sistematica presa di posizione: il Teatro richiede, esige addirittura, non solo di occupare un posto, ma proprio di prendere posizione, ossia schierarsi. Nell’anno passato, segnato dalla pandemia e dai lockdown, i teatri ci hanno aspettato. Sono stati là, nella splendida e viva immobilità della chiusura, in attesa. Sapevano, loro, che saremmo tornati prima o poi. Hanno pazientato.
E adesso, nella stagione della timida riapertura alla vita sociale, nel tempo faticoso della convalescenza dal trauma e dai lutti, il Teatro è pronto più che mai a offrirsi per essere e vivere.
L’altro giorno, nel programma della Biennale Teatro diretta da Stefano Ricci e Gianni Forte, ho avuto modo di incontrare e intervistare il Maestro Krzysztof Warlikowski, Leone d’Oro 2021. Alla fine di una bella conversazione (quanto meno bella per me: il regista e autore è ricco di una visione speciale, di uno sguardo aguzzo e profondissimo sulla realtà e la scena) ho chiesto di dare una definizione di “Teatro”. E Warlikowski non ha esitato un istante: il “teatro è un ospedale”, ha detto sornione. Il luogo dove ci curiamo e curiamo. Si cura chi lo fa, e certo si cura chi vi assiste, chi vi partecipa.
Lo spettacolo cui avevamo assistito la sera prima dell’incontro, il bellissimo We are leaving, tratto da Suitcase Packers, di Hanoch Levin, è un affresco struggente di esistenze sospese in attesa di una possibile speranza, di morti raccontati nella gabbia della vita. È un compianto, scandito da funerali. “Tutta la compagnia di attori e attrici muore in questo spettacolo”, spiega Warlikowski: tutti o quasi, sono pochi quelli che riescono davvero a partire, o a dare l’estremo saluto agli altri. Una celebrazione del Lutto, dunque: rituale tornato amaramente “d’attualità” nei mesi del Virus falcidiante. Allora il teatro è l’ospedale dove far scorrere umanissime lacrime, dove provare a “elaborare”, laddove possibile, il dolore stesso. La catarsi? Forse, ma non solo. Non è un caso che il tempio di Esculapio fosse accanto al teatro di Epidauro. Ma non si tratta solo di superare le passioni, come insegnava Aristotele, semmai il contrario. Provare a viverle fino in fondo, quelle passioni: tenerle presenti e vive nella nostra mente, raccontarle e condividerle addirittura nella forma antica del racconto. Il Teatro è la passione condivisa. È lo spazio del racconto, dunque della memoria che torna nel tempo e si attua sempre di nuovo come condivisione. Dove accade altrettanto? Di fronte a una serie Netflix? Non credo, proprio no. Mettere a confronto teatro e piattaforme televisive è come barattare il mistero con la banalità, la seduzione con la pornografia, la imprevedibilità spiazzante del non garantito con il finto arbitrio su programmi e possibilità già stabilite nella “bolla” dell’uguale: che noia sfogliare l’eterna proposta di Netflix, no?
Ecco perché il Teatro è lo spazio della ricostruzione individuale e collettiva, ecco perché si fa prospettiva politica. Abbiamo rinunciato a tante libertà, in nome della salute, della sicurezza, della salvaguardia della nostra capacità produttiva. Ora si tratta, e con forza, di recuperare, di riagguantare la vita. Abbracciarsi, stringerla con le unghie e coi denti e difenderla con le arti della nostra cultura. Ritrovando la visione, l’ascolto, la poesia, il rito stesso. Scrive il filosofo coreano Byung-Chul Han che, nella comunità “erosa” e produttiva in cui viviamo, sono scomparsi i riti. Eppure abbiamo una struggente nostalgia per i riti che “si lasciano definire in termini di tecniche simboliche dell’accasamento: essi trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile … Riordinano il tempo, lo aggiustano”. Ecco, il Teatro, ecco quel che troviamo nella stanza buia di cui parlava Flaiano: una casa, il nostro stare, il nostro essere.
Alla Biennale Teatro 2021 è attivo, assieme a molti altri, anche un workshop di scrittura critica, durante il quale proviamo – assieme a un manipolo di giovani e giovanissimi laboratoristi – a riflettere su alcuni dei temi che ho intrecciato anche per questo articolo. Gli esiti di scrittura si trovano qui.
La foto di copertina è di Magda Hueckel
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