Teatro
A chi fa paura Cappuccetto rosso senegalese?
Qualche fiero e orgoglioso razzista, spavaldo nei propri pregiudizi, ha recensito – evidentemente senza vederlo – lo spettacolo Thioro, accusando artisti, produttori e organizzatori di aver leso la maestà, nientemeno, di Cappuccetto Rosso, assurto a baluardo dell’identità europea. Verrebbe da trascurare simili argomentazioni, del tutto prive di fondamento: è chiaro che chi ne ha scritto sullo spettacolo lo ha fatto senza sapere, se non per sentito dire, di cosa stesse parlando. Al contrario, dobbiamo confrontarci con simili prese di posizioni, poiché di questo è fatta gran parte della politica di governo e dell’opinione pubblica dominante. Parlare a sproposito, affermare pregiudizi, lanciare cliché come fossero dati incontrovertibili. Non basta l’ironia, per ridimensionare certe attitudini: di stereotipi si sta impastando il paese del presente e dell’immediato futuro. Allora questo articolo proviamo a raccontare almeno i fatti, quanto meno per come noi (io) li abbiamo vissuti.
Il Teatro delle Albe, con Accademia Perduta/Romagna Teatri, assieme al Kër Théâtre “Mandiaye N’Diaye” hanno prodotto il lavoro suddetto: ideato da Alessandro Argnani, regista, Simone Marzocchi (anche interprete) e Laura Radaelli. Lo spettacolo è interpretato da due attori senegalesi, Follou Diop e Adama Gueye, in scena con Marzocchi. L’esito scenico è appunto Thioro, un cappuccetto rosso senegalese, divertente, affascinante, poetica rilettura della fiaba, aderente perfettamente non solo alla tradizione originale ma anche alle suggestioni narrative popolari africane. Ma di questo dirò tra poco.
Intanto vale la pena segnalare che il Teatro delle Albe di Ermanna Montanari e Marco Martinelli, con i loro sodali, ha incontrato il tema dell’immigrazione già da molto tempo: sul finire degli anni Ottanta diedero vita a uno spettacolo Ruh, romagna + africa uguale, che lasciò il segno. Era invece del 1993 un altro lavoro, estremamente importante, che mi piace collegare a Thioro: il lavoro si intitolava Griôt Füler, e affiancava il cantastorie africano (il Griôt, appunto) al contastorie romagnolo, il Füler), con esiti già allora meravigliosi: wolof e romagnolo si alternavano sulla scena, entrambi incomprensibili, eppure chiarissimi, vivi, vicini. Il 1993, lo ricorderete, è l’anno delle bombe mafiose, del suicidio di Cagliari e Gardini, dello scioglimento della DC, e anche della nascita di Forza Italia, partito fondato da tre figuri poi condannati per reati vari (tra cui associazione mafiosa). Chissà, già in quell’anno il paese “reale” andava altrove: il teatro segnava una via possibile – di incontro, di ascolto – mentre la politica segnava altre strade, ben più pericolose. Oggi, come venticinque anni fa, se la società ascoltasse il teatro, ossia Thioro, anziché le deliranti affermazioni di certa politica e di solerti giornalisti, le cose potrebbero andare meglio. O quanto meno essere diverse. E invece. Dall’utopia alla distopia il passo è breve.
Va detto, in secondo luogo, che in quel Griôt Füler c’era, tra gli interpreti anche un amatissimo attore, Mandiaye N’Diaye, che abbiamo avuto modo di conoscere e apprezzare anche in seguito – era lui l’indimenticabile Papà Ubu nella versione Albesca dell’Ubu Re di Alfred Jarry. Mandiaye se ne è andato prematuramente, ma era riuscito ad aprire un teatro in Senegal, nel suo villaggio, Dioll Kadd, uno spazio che è ancora attivo. Ed è bello ritrovare oggi, come organizzatore di Thioro, il figlio di Madiaye, Moussa, italiano di seconda generazione che ha voluto proseguire nella ventennale missione del padre, di mettere in relazione Africa e Italia, Romagna e Senegal. Una simile prospettiva, in tempi di porti chiusi e oscurantismi, è peccato grave: creare “ponti” anziché “muri” pare essere un crimine.
Detto tutto ciò, si arriva allo spettacolo. Che è, come tutte le favole, gioia per grandi e piccini, gioco felice e divertente, spaventoso e commovente. Un racconto tra musica, danza, narrazione, con garbatissimo coinvolgimento dei bambini presenti, ottimamente interpretato dai performer che giocano sapientemente con tecniche e possibilità sceniche. Basta poco: un cerchio “magico” a terra, che è area scenica, il pubblico tutto intorno, da un lato la postazione delle percussioni, dall’altra una struttura leggera, fatta di tronchi, con un velo.
Non serve altro, se non fantasia, disponibilità, allegria per raccontare la vicenda di Thioro, la bambina che sarà tutti gli spettatori, avrà infatti – con un’idea scenica trascinante – caratteristiche di tutti i bambini seduti in cerchio. Con divertente enfasi, e grande energia, i performer introducono nella vicenda, che è nota a tutti: Thioro si perde nella savana, sarà divorata dalla Iena Buki assieme alla nonna, dunque prontamente salvata dal cacciatore, visto che un triste finale avrebbe scontentato non solo il pubblico ma anche gli interpreti. Nel dipanarsi della vicenda, tra Baobab giganti e gag inattese, ci sarà spazio per parlare assieme Wolof, per evocare tanti animali, per ridere e impaurirsi fino a esplodere nella festa di uno spettacolo che sa attraversare i momenti culminanti della fiaba per renderli vivi e istruttivi. Insomma: rito-gioco-festa, come è, e deve essere, il buon teatro.
Nessuno, tra gli spettatori, si è sentito “defraudato” della storia di Cappuccetto Rosso, e a nessuno – ho sentito qualche testimonianza – sarebbe venuto in mente di scrivere cose simili a quelle imbarazzanti considerazioni pubblicate sulle pagine di “Libero”.
Thioro è andato in scena a Matera, nell’ambito del bel festival, piccolo e coraggioso, Nessuno resti fuori di cui scriverò più avanti: un festival affollato, ricco di senso, di contagioso entusiasmo, di serena, civile, intelligente voglia di vivere assieme. Sarebbe, credo, prezioso per giornalisti (e lettori) di certi quotidiani farsi un giro da queste parti: scoprirebbero che il mondo è meno brutto di quel che pensano. Ma questo, si sa, può far paura.
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