Teatro
“89” a Parigi, quel giorno scoppiò la Rivoluzione
CAGLIARI _ “Ascoltate! Se accendono le stelle, vuol dire che qualcuno ne ha bisogno?”.
Viva la Rivoluzione. Sì ma quale? Quella poeticamente intrecciata con l’amore di Majakovskij che scriveva:
“A te,
fischiata
e schernita dalle batterie,
a te,
piagata dalla maldicenza delle baionette,
levo con entusiasmo
ad aleggiare sull’insulto
dell’ode il solenne
«oh!».
Oh, ferina!
Oh, infantile!
Oh, pezzente!
Oh, grande!
Come chiamarti ancora?
Come ancora ci apparirai, bifronte?
Armonioso edificio
o ammasso di macerie?”
(Da “Ode alla Rivoluzione” di Majakoskij, 1918).
Oppure è quella di Saint Just, braccio destro di Maximilien Robespierre, con cui morrà sul patibolo a Parigi, il 28 luglio 1794, probabilmente uno dei più incompresi o travisati ideologi del movimento dei sanculotti, di cui varrebbe la pena andare e rileggere gli scritti per rendergli giustizia…
“L’obiettivo della rivoluzione è quello di reindirizzare la società nell’orbita della natura, ritornando a un ordine ritenuto naturale, lontano dal nuovo, e di porre dei limiti che sono tanto più vincolanti in quanto visti come oggettivi. “Io non recido i legami della società, ma la società ha reciso quelli della natura, non cerco di istituire novità ma di distruggere le novità”…
Affamati. Ubriachi e Orfani di Rivoluzione. In “89” il piccolo ensemble di Daniele Timpano ed Elvira Frosini, uno dei rari a fare teatro politico in Italia, racconta l’altro volto della Storia in testi immersi con ferocia nel quotidiano. Si infilano nelle sue pieghe come lame acuminate. Spulciando conti aperti di tre secoli, fanno a strisce il credo e l’azione che hanno segnato le vicissitudini dell’umanità. Questo accade con lucida analisi e sentimento poetico anche in “89” , spettacolo in scena giorni fa per il Cedac al Teatro Massimo di Cagliari ed ora atteso per il 10 maggio al Camploy di Verona.
Ma questa Rivoluzione chi la racconta poi? Sul palco, Frosini e Timpano da qualche minuto guardano in silenzio verso la platea. Teatro nel teatro: si alza uno spettatore e inizia a mettere a fuoco il tema del giorno come se fosse stato un invito a dibattere. Parla dei giovani e di quanto i cambiamenti abbiano inciso la nostra società a tal punto che l’attuale umanità è a rischio serio di perdere la propria identità. Lo spettatore è l’attore Marco Cavalcoli che diventa poi con Elvira e Daniele il terzo narratore di un mosaico di pensieri, rievocazioni e disanima di quegli accidenti che hanno modificato lo scorrere del tempo. Tutto avverrà in una ventina di quadri che in comune hanno il diabolico disegno di stare insieme come matrioske. Una via Crucis propiziata da un alberello che l’attore porta con sé disponendolo in un angolo della scena quasi fosse la posa di un seme nato nella Rivoluzione Francese del 1789. E questo è -racconta- proprio il punto nodale di un lungo ciclo di rivolte che l’attore individua in cinque rivoluzioni contro Dio. Quella del Protestantesimo fu la prima a cui seguì la Rivoluzione Francese, la più famosa e importante di tutte, contro la Chiesa e lo Stato: tagliò la testa al re e portò al potere la borghesia. Poi venne quella di ottobre in Russia contro Chiesa, Stato e proprietà. La Quarta? Il Sessantotto. Che però non fu come le altre tre, assai più pervasiva, riguardò la sfera dei diritti: dal divorzio all’aborto, al movimento omosessuale etc…). L’ultima riguarda l’individuo sul quale “c’è un progetto”. “E diciamo le cose come stanno: il progetto viene dal nemico di Dio, che è il nemico dell’uomo, e che è sempre stato definito in tutti i tempi e in tutti i luoghi… Scimmia Dei. Ma non dico altro perché se no..”
E’ il tanto giusto per iniziare il racconto, partendo dalla sfera dei ricordi, che come suggeriscono gli album di famiglia sta dentro fotografie in bianco e nero. Senza illudersi che la narrativa possa essere lineare visto che attorno alle rivoluzioni sono stati costruiti spesso depistaggi e imbrogli. E, talvolta, i miti sono stati inventati o montati con delle bugie. Non tutto cioè è come l’iconografia e la leggenda hanno voluto diffondere e far conoscere.
Si prenda ad esempio la “Marsigliese”, l’inno rivoluzionario di Rouget De Lisle. Ebbene, secondo alcuni dovrebbe chiamarsi la “Vercellese” perché opera di un violinista italiano: tale Giovanni Battista Viotti di Vercelli che scrisse il brano musicale nel 1781, undici anni prima di quello di De Lisle intitolandolo “Tema e variazioni in Do maggiore”. La questione è però tutta da chiarire in quanto la musicologa Giuseppina La Face in un articolo apparso sul “Fatto quotidiano” del 2016 metteva in dubbio queste tesi, complicando di molto il quadro. Per dirla tutta con un altro studioso, Carlo Vitali, d’accordo con le conclusioni de La Face, in attesa di ulteriori ricerche la musica della “Marseillaise” “rimane in capo a Rouget de Lisle, sia pure sub judice”.
Ma anche Bach non prese forse dallo “Stabat Mater” di Pergolesi? E Mozart da Salieri? Molte cose sono aleatorie e talvolta le bugie risolvono un problema. Lenin sosteneva, dice, il poeta Majakovskij, amato dal pubblico davanti al quale recitava i suoi versi. E così fece anche per “150.000.000”, suo componimento tra i più famosi. Poema dedicato al proletariato, racconto metaforico di una rivoluzione internazionale. Lenin ascoltò e furente protestò con Lunacarkji, commissario del popolo all’istruzione: gli disse che era una composizione per pazzi. In ogni caso di non stamparne oltre 1500 copie. L’aneddoto rivela quanto poco Majakovskij fosse amato dal potere. Da Lenin innanzitutto e poi dai burocrati del partito. Al punto che la sua stessa scomparsa (il poeta si suicidò il 14 aprile 1930) potesse diventare oggetto di interrogativi e dubbi. Questo episodio mette in luce un tema spesso accantonato nel dimenticatoio: quello dei rapporti scivolosi e difficili tra cultura, arte e potere.
Si mitizza spesso. E se è vero che tra le conquiste del “89” ci fu l’inizio della democrazia è anche vero che questo movimento, se si considera soprattutto il periodo del Terrore, non sia estraneo o esente da colpe per aver dato vita anche alle prime cellule di totalitarismi.
Frosini, Timpano e Cavalcoli rilanciano. I nostri miti e fantasmi spesso finiscono in pezzi. Come macerie di muri crollati. Così teniamo il ricordo. E’ il caso della Bastiglia. Il simbolo della rivoluzione Francese, quello della celebre presa da parte del popolo, l’assalto cioè che diede il via alla Rivoluzione un giorno venne giù. Scomparve. Difficile pensare oggi che proprio in quel vasto incrocio che si percorre in auto a tutta velocità in direzione di rue de Rivoli, sorgesse l’antica fortezza che chiudeva la porta di Sant’Antoine e della quale nulla restò. Caduta in rovina e depredata dei materiali utili a costruire altro e altrove. L’imprenditore edile incaricato dello smantellamento finale ebbe comunque una idea: quella di vendere pezzi del muro della Bastiglia come reliquie. Qualche centinaio di anni dopo nel 1989, trovò un emulo a Berlino che iniziò a vendere come souvenir i frammenti del celebre Muro eretto tra la Germania dell’Est e dell’Ovest.
Cavalcoli sottolinea: “E allora andiamo a scavare in questa infanzia, in questa rivoluzione, in questa archeologia di democrazia, riportiamo alla luce qualche scavo. Qualche reperto. Qualche pezzo di muro. Sì. Pezzi di macerie, di muri crollati, o pezzi di muri in costruzione. Stiamo in piedi su macerie, come su piedistalli. Ecco, questo è un pezzo di muro della Bastiglia, 1789...”
Non si uccidono anche in questo modo le Rivoluzioni?
Ma è chiaro: per Timpano e Frosini che due secoli dopo fanno i detective su quanto accadde dal 1789 in poi, il loro lavoro di ricerca è stato soprattutto quello di tirare fuori tanti ricordi da vivisezionare, molti dei quali caduti nell’oblìo.
Precisa infatti Timpano: “Non dobbiamo fare la rivoluzione. C’è già stata la rivoluzione. La rivoluzione non dobbiamo farla. Dobbiamo solo ricordarla. Ricordare”.
Ricordare per non dimenticare quindi. Dalle parrucche al clavicembalo, da Voltaire a Rousseau, dal calendario rivoluzionato con i mesi di brumaio e termidoro, germinale e frimaio alla Costituzione, dalla Dea Ragione all’Essere Supremo e, arrivando in casa nostra Napoleone e le repubbliche Cispadana e Cisalpina, Alessandro Volta e Ugo Foscolo. E poi l’assemblea e il voto, la democrazia e la libertà, il Terrore e la ghigliottina.
Libertè, Egalitè, Fraternitè.
In “89” non c’è un vero sviluppo narrativo, costruzione di personaggi e gioco delle parti bensì azione. Svisceramento, analisi impersonali, e soprattutto azione da teatro politico tout court. Accendere piccoli e continui fuochi di coscienza, scovare le piccole tessere di un grande mosaico, tanti ricordi per la Memoria. Solo il sentiero male illuminato della Storia fa rivelazioni crudeli che abbassano il ritmo cardiaco e lanciano visioni di un’epoca che non c’è più.
“La sala della Convenzione era lunga, alta e nuda. Poteva contenere duemila persone, e, nei giorni d’insurrezione, tremila. Lo schienale della sedia del presidente era rotondo, con borchie dorate. Il suo tavolo era sorretto da quattro mostri alati con un sol piede, che parevano usciti dall’Apocalisse per assistere alla rivoluzione. Delle teste tagliate, infilzate in cima a una picca, hanno sgocciolato su questa tavola”.
Quella sala era prima il Teatro del Re. Divenne tutto unico: palcoscenico e platea per contenere “duemila persone, e nei giorni di insurrezione, tremila”. Un teatro rivoluzionario nel teatro del Re. Ma che c’entra la Rivoluzione con il teatro?
Questo era stato bandito. “Il teatro è falsità” aveva detto Rousseau. E i buoni illuministi rivoluzionari avevano inteso. A quello preferivano un surrogato di religione. Solidarietà e fratellanza erano i pilastri della nuova chiesa laica. D’altra parte ancora Rousseau stimolava: “Piantate un palo nel mezzo di una piazza, circondatelo di fiori, raccoglietevi attorno il popolo, e avrete una festa”. Le feste che nascono dopo il 1789 hanno il compito di dare immagine e sostanza al nuovo che dovrebbe avanzare ma in realtà tarda, perché le rivoluzioni sono lunghe, non possono durare un solo giorno o dare tutto quello che si desidera in ventiquattro ore.
In realtà c’è anche chi disattende questa linea. Sono autori come Louis Benoit Picard, Beffroy de Reigny che usa lo pseudonimo Cousin Jacques oppure Marie Joseph Chenier -fratello del più celebre Andrè, ghigliottinato nel 1794- , membro della Convenzione e del Consiglio dei Cinquecento, faceva parte del Club dei Giacobini. E in Italia? Ci sono, tra gli altri letterati come Antonio Simeone Sografi, librettista e drammaturgo che nell’ultimo Settecento su posizioni illuministe è molto attivo nelle scene di Venezia,
Ma per attendere una vero incontro della Rivoluzione della Bastiglia con il Bel Paese occorre attendere la Repubblica Cisalpina, l’inizio del Risorgimento, la nascita del tricolore.
Ma difficile sarà la strada per raccontare in Italia cosa è stata la Rivoluzione Francese. Cosa ha lasciato, cosa ha seminato..
Federico Zardi, commediografo e sceneggiatore cinematografico nel 1962 fu l’autore assieme a Edmo Fenoglio di uno sceneggiato Rai, “I Giacobini” da molti ricordata come un’opera televisiva che apriva uno squarcio nello strapotere monolitico e mediatico democristiano. Nonostante il grande successo per il tempo venne considerato troppo di sinistra e nei fatti sparì all’orizzonte del piccolo schermo (scomparendo proprio letteralmente pure dagli archivi). Sono segnali che il parlare di Rivoluzione con un linguaggio politico non fosse certo il benvenuto nell’Italietta del boom après guerre. Ma forse, neppure dopo. Si parla di 1789 e si allude al presente. Zardi scomparso. Troppo scomodo perchè portava un’idea politica di teatro. Come quella di “Brecht, Peter Weiss, il Théatre du soleil, Heiner Muller, Pommerat. O del teatro rivoluzionario del Settecento”.
Scomparso come altri autori: “Ugo Betti, Rosso di San Secondo, Sem Benelli, Luigi Chiarelli, Raffaele Orlando. Sparito come spariranno Antonio Tarantino, Franco Scaldati... “ come ieri anche oggi può ancora accadere.
“E come spariremo noi. Federico Zardi, un italiano come noi, sparito, sbiadito, come sbiadiremo e spariremo noi.” denunciano con amarezza e una punta di rassegnazione Elvira, Daniele e Marco a testimonianza di quanto è effimera la vita del teatrante scomodo, soprattutto quando tocca i centri del potere. Pure a distanza di una Rivoluzione di duecento anni fa che evidentemente più di uno strascico ha lasciato…
“89” sale così di intensità. Da elaborato e stimolante resumè storico diventa cahier de doleances. Cosa accade a questo Paese che non è neanche stato capace di fare una vera Rivoluzione, prendendola in prestito dai cugini d’oltralpe? Indiziata di navigare spesso a mezz’aria senza andare fino in fondo sul terreno dei diritti e dell’eguaglianza? Perchè Zardi è scomparso? Come mai quel piccolo schermo non è diventato la casa dei teatranti, di chi ambisce sperimentare aprendo dialoghi e confronti con quanti vivono e amano questo Paese? E magari vorrebbero partecipare di più a quella grande conquista del 89 che si chiama democrazia. Quella che i greci, ancora prima, praticavano nelle agorà. A poco quindi servirebbe dare la colpa agli altri, scoprirsi che so uno spirito antifrancese quando non si ha la capacità e il coraggio di liberare prima di tutto se stessi.
“Non date retta
a chi vi batte amichevolmente sulla spalla
e vi racconta
che non è più il caso di parlar di differenze
e non esiste più motivo
di litigare
Perché in quel momento sono al culmine
nelle loro nuove fortezze di marmo e d’acciaio
da cui depredano il mondo
dopo aver proclamato ai quattro venti noi
diffondiamo la cultura
Guardatevi
Perché se lo esige il loro comodo
vi mandano a difendere i loro tesori
in guerra
e vi massacrano a milioni.”
Questo è Jean Paul Marat nel testo di Peter Weiss “La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentati dai filodrammatici di Charenton, sotto la guida del Marchese De Sade” (1964).
Timpano: Messo in scena anche da Peter Brook nel 1967 con il titolo “Marat-Sade”.
Frosini: “Un testo potente. Teatro. C’è il teatro nel teatro, c’è la Storia, c’è la manipolazione della Storia, riletta e corretta da chi vince. C’è la visione del mondo di Marat e quella di Sade. Ci sono io, ci siamo noi. Un po’ Marat e un po’ Sade. Quel che ne rimane mescolato in noi. Almeno, io ho sentito questo…”
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