Teatro

25 aprile: teatro liberazione e fascismo

25 Aprile 2017

Oggi si festeggiava il 25 aprile, e con mio figlio Leo, di dieci anni, siamo andati al Museo della Liberazione di via Tasso, trovandolo – fortunatamente e felicemente – pieno di gente. A farci da guida è stato Modestino De Angelis, una delle anime del Museo. Ha risposto a domande e curiosità, con un tono garbato e appassionato ha raccontato, spiegato, illustrato. Parlava di libertà.

È la festa più importante che abbiamo in Italia, è una festa umana e vera, da celebrare – anno dopo anno – e con impegno crescente, visto il passare del tempo che inesorabilmente allontana da quell’epoca. Siamo sommersi da feste cattoliche, commerciali, addirittura da Halloween: ma è oggi che dovremmo veramente ritrovare valori comuni, ridare senso a democrazia, unità, memoria, fermarci, finalmente, a festeggiare la pienezza politica di una parola come Libertà. Ricordare che non sono luoghi comuni, come in molti spererebbero.

Allora non so, mi piace provare a trovare tracce di teatro anche in questa storia.

Modestino è figlio di un regista e sceneggiatore, Gerardo, ucciso alle Fosse Ardeatine. Tanti ex Guf, attori, attrici, registi hanno fatto la Resistenza.

In un agile librino, Silvio D’Amico ricordava i suoi giorni passati a Regina Coeli nell’ottobre del 1943. Scriveva tra l’altro: «Vito Pandolfi è, fra i giovani registi da noi diplomati in quest’anni (all’Accademia, nda), il più geniale e applaudito: quello stesso giorno avanti al mio arresto tentò di mettermi in guardia, con una lettera arrivata a casa troppo tardi. Domando cos’è accaduto di lui: semplicissimo. I fascisti, conoscendo la sua pubblica collaborazione al giornale di Saitta, ‘L’Italiano’, l’hanno preso, condotto in una stanza al terzo piano di palazzo Braschi, e interrogato sul conto d’una serie di persone elencate in una lista. Poiché egli rifiutava di parlare, hanno cominciato a picchiarlo ferocemente. Pandolfi, che fra l’altro è esile e di salute assai cagionevole, non sapendo come resistere, ha preso una decisione suprema, e s’è buttato disotto. È stato raccolto con un braccio fratturato e la commozione celebrarle, e trasportato all’ospedale di Santo Spirito, dov’è rimasto in stato d’arresto. Senonché, tornato in sé e confidatosi coi medici che lo curano amorevolmente, ha potuto fa avvertire in tempo utile tutti coloro di cui aveva letto il nome nella lista. Adesso aspetta di guarire, il più tardi possibile, per conoscere la sua sorte».

È solo una delle tante storie possibili.

Con un bel lavoro di ricerca, Gianfranco Pedullà ha ricostruito “Il teatro italiano nel tempo del fascismo” (Titivillus Editore): opera di grande interesse per l’accurata documentazione che offre. Pedullà ricorda come, se pure non mancasse un forte sentimento antifascista, «in Italia rarissimi furono i casi di esplicito dissenso poiché, da un punto di vista specificatamente politico, il teatro italiano visse una generale dimensione di adeguamento al potere dominante. D’altronde i comici erano completamente ricattabili sul piano strettamente legato alle opportunità lavorative e, quindi, le maglie del regime furono per loro particolarmente strette. IN quelle condizioni politiche ed esistenziali la scena italiana durante la guerra dovette arrangiarsi e battersi per la propria sopravvivenza». Insomma, suggerisce ancora Gianfranco Pedullà, i teatranti dovettero accettare compromessi tra la libertà espressiva e l’appoggio organizzativo e finanziario: ne sapevano qualcosa Luigi Pirandello e lo stesso D’Amico, che non esitò a trattare col fascismo per far nascere la “sua” Accademia.

Ma, dice ancora Pedullà, «un teatro vivente, di elevata qualità artistica solitamente procede attraverso complessi processi di differenziazione e resistenza verso il tempo in cui nasce; l’insoddisfazione per la realtà quotidianamente vissuta spesso è la condizione preliminare per un implicito, più o meno consapevole, dissenso. In questa chiave è possibile leggere l’esperienza teatrale realizzata da Eduardo De Filippo, in quegli anni impegnato alla piena maturazione della sua ipotesi di un teatro nazionale fondato sulla rifunzionalizzazione della lingua napoletana. Per un paradosso della storia, dopo la proclamata discriminazione del fascismo verso il teatro dialettale, fu proprio dall’interno di quella cultura teatrale che nacque un’opera come Napoli Milionaria (1945) che meglio di ogni altra seppe riflettere il drammatico paesaggio vissuto dalla società italiana alla fine della guerra».

E oggi? Si intravede un testo capace di raccontare il nostro tempo come Napoli Milionaria allora? Certo non possiamo e non vogliamo fare paragoni: l’Italia del 2017 – nonostante tutto – è libera e democratica. Votiamo poco, è vero, ma votiamo; abbiamo rappresentanti politici discutibili, ma li abbiamo. E non abbiamo censura. La censura è una faccenda seria, da non sottovalutare, mai.

Oggi, semmai, è molto forte quel  “ricatto economico” evocato da Pedullà, e si avverte il rischio sottile di subire piuttosto un’autocensura preventiva: l’artista o il programmatore sono propensi a scegliere cosa fare in base alle leggi del mercato, ossia del botteghino, che non alle esigenze artistiche. È il Capitale che detta regole, non il regime, o meglio: un’altra forma di regime che spaccia libertà assoluta e ci contabilizza nei big data.

E il teatro come reagisce, come si rapporta al potere?

Questione delicata, che non si può risolvere certo in questo articoletto, scritto sull’onda emotiva del 25 aprile. La generale dimensione di adeguamento al potere pare ancora abbastanza diffusa e visibile. I teatranti sono sempre in attesa del bando, del finanziamento, della manovrina. Anche i più giovani, ormai sintonizzati sull’onda delle direttive ministeriali, si presentano non come artisti ma come “under 35”.

Per fortuna non mancano le belle eccezioni, i radicali contestatori, i sapienti innovatori, gli appartati e i disadattati, gli apocalittici e i “disintegrati”, i disoccupati, i sottooccupati e i vitali occupanti. Come non mancano i conniventi, i maneggioni, gli affaristi, i reazionari, i conservatori, gli interessati, gli amici degli amici, i cognati e i raccomandati.

Ma ci sono ancora quelli, come il giovane Vito Pandolfi, che sono pronti a buttarsi di sotto. Per la libertà, per l’arte, per la creatività. Per un teatro inteso come luogo di democrazia discorsiva e di libera espressione, come spazio di incontro e confronto, come fattore di crescita culturale individuale e collettiva, come valore sociale capace di costruire comunità.

Ci sono, voglio crederlo.

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