Cultura
Teatri, una riforma tutta distintivi e poche risorse
Non sono feste serene, quelle di molti direttori generali del Ministero della Cultura. Mentre il ministro Dario Franceschini si scontra con la nomina dei vertici di arte e beni culturali, il direttore del settore Spettacolo dal Vivo Salvo Nastasi è alle prese con l’attesa riforma del settore teatro. Problema di non poco conto, che da fine gennaio 2015 cambierà di fatto lo scenario del sistema teatrale nazionale. La riforma, avviata dall’ex ministro Massimo Bray e firmata a luglio da Franceschini, per quanto auspicata, è un bel pastrocchio.
Vero è che il teatro in Italia vivacchiava piuttosto male e da lungo tempo, complice non solo gli scarsi finanziamenti pubblici (aggiudicati in base al FUS, il Fondo Unico per lo Spettacolo) ma anche alla crisi sostanziale e propulsiva delle strutture preposte, per primi i Teatri stabili pubblici. Gli Stabili sono stati creati, a partire dal 1947, sullo slancio innovativo dell’impresa del Piccolo Teatro di Milano di Strehler e Grassi: «teatro d’arte per tutti» si diceva allora, o ancora «teatro come servizio pubblico», al pari di Sanità e Istruzione. Nacquero così Teatri Stabili a Bolzano, Genova, Torino, Roma e in varie altre città. Oggi sono 17, ma da decenni – seppur con eccezioni – sono considerati carrozzoni pesantissimi, sistemi più o meno “museali”, affidati spesso a registi-star che facevano e disfacevano le strutture (e i bilanci) per autoprodurre i propri spettacoli, tra lottizzazioni, sprechi, clientele, raccomandazioni.
Se questo sistema è presto entrato in crisi – per molti studiosi già dalla fine degli anni Cinquanta – il teatro italiano ha provveduto a consolidare altre “isole” creative che potessero porsi come “alternative” al mainstream: dapprima i Teatri Stabili privati (comunque finanziati dal Fus, anche se in percentuale minore), gli Stabili di Innovazione (che si sarebbero dovuti dedicare alla ricerca di nuovi linguaggi) gli Stabili di teatro per ragazzi (con spettacoli destinati a un pubblico di bambini, e che spesso si occupano anche d’altro). E ancora i Circuiti regionali, le Compagnie di giro, i Festival, le Residenze. Vi siete persi? È normale: troppa roba, troppa confusione sotto il cielo dello spettacolo dal vivo.
Anche perché, al pari sistema-teatro, il Fus provvede al sistema Musica, con le sue fondazioni lirico-sinfoniche (gli ex Enti lirici), i teatri comunali, le orchestre. E alla Danza, al Circo e gli Spettacoli viaggianti. Va da sé che un mondo così articolato e complesso necessitasse di una normativa o proprio di una sfoltita. Ma in Italia di far leggi di settore non se ne parla: nemmeno i teatranti ne hanno mai volute. I governi, storicamente, sono sempre intervenuti più che per normare e rilanciare, soprattutto per fotografare l’esistente, per controllare o chiaramente per lottizzare (tradizione di Prima Repubblica voleva che i presidenti degli stabili fossero Dc e i direttori artistici Pci) procedendo vieppiù per Decreti Ministeriali: ovvero procedimenti urgenti che potessero dare risposte alle esigenze del momento.
Sembra non fare eccezione il Decreto Franceschini, che prova a far fronte a due guai sostanziali. Il primo è razionalizzare il sistema sopradescritto, il secondo è la mancanza di seri investimenti economici. Obiettivo principale del Decreto è quello di dare una salutare scossa agli Stabili Pubblici. Si creano i Teatri Nazionali: ventata di novità accolta con entusiasmo da tutti o quasi, almeno inizialmente. Intanto, si impone una maggiore attività in sede (ovvero meno tournée e meno “scambi” a favore della stanzialità, con compagnie interne stabili, sul modello tedesco) e un opportuno ricambio nelle direzioni. Se ne vedono già frutti: dopo aver assistito inermi a incarichi di direzione (pubblici) durati oltre 20 anni, ci sono state, in quest’ultimo anno, alcune nuove nomine interessanti.
Dal 2015, poi, una direzione non potrà andare oltre due mandati (ossia 6 anni) e i registi-direttori non potranno più auto-produrre i propri spettacoli (con il compromesso dell’ultimo minuto: al massimo uno solo a stagione), aprendo così a figure di direttori-manager: non si sarà se saranno meglio dei direttori-artisti, ma staremo a vedere. Lo Stato dichiara inoltre di volersi impegnare particolarmente nel sostegno di pochi teatri, ritenuti di altissima qualità: i Nazionali appunto. In un primo momento era chiaro che i Teatri Nazionali sarebbero stati due, al massimo tre: il Piccolo di Milano, ovvero l’eccellenza italiana, e con lui il Teatro di Roma e poi chissà. Ma è noto: da noi le regole si discutono, non si applicano.
Dunque si è aperta la caccia al titolo di “Nazionale”. Pare che il premier Renzi abbia imposto Firenze: una città che teatralmente non ha prodotto nulla di nuovo negli ultimi venti anni. Gabriele Lavia è dunque sbarcato sull’Arno, al prestigioso, monumentale e bellissimo Teatro della Pergola, e subito si è ipotizzata la creazione di un Nazionale toscano, con buona pace di Prato (la città è sede dell’attuale Teatro Stabile di Toscana e ha una grande tradizione). Oggi si parla di una santa (o strana) alleanza Firenze-Pontedera – da sempre capitale mondiale della ricerca teatrale – per conquistare l’ambito titolo. Se Firenze già festeggia, Torino non si tira indietro: lo Stabile cittadino, guidato da Mario Martone, punta al riconoscimento. Così è per il Friuli (pare che si sia impegnata la stessa Serracchiani per candidare Trieste-Udine), per Modena-Bologna (l’Ert di Modena è, per finanziamento, il secondo Stabile d’Italia dopo il Piccolo); per Roma (che sta cercando di risolvere alcune mancanze strutturali, come la scuola); poi per Genova, Napoli, Venezia. E perché non Palermo o Bari?
Insomma, un bell’inghippo: basteranno i soldi per tutti questi Nazionali? La domanda è lecita: ed ecco il secondo problema. Per fare una seria riforma, servirebbero fondi adeguati. Invece così non è. Il Paese che ha inventato l’Opera e la Commedia dell’arte, non investe nello spettacolo. Questa riforma si preannuncia più che altro come un programmatico taglio di teste. Il Fus è minimo (appena 400 milioni di euro in totale, di cui solo 60 milioni per la prosa: un F35 ne costa 100), si è sistematicamente ridotto (-60% dal 1985) ed è in gran parte assorbito dalla lirica (47% alle Fondazioni lirico-sinfoniche, altri carrozzoni in palese difficoltà, se confrontati ai paritari teatri d’opera stranieri).
Il Fus è dunque il proverbiale fico secco delle nozze da fare. Fino a oggi è stato spesso distribuito “a pioggia” (un po’ a tutti, anche con cifre minime) e ha anche garantito rendite di posizione assai discutibili, “dimenticando” invece realtà meritevoli, magari apprezzate in tutta Europa e bistrattate da noi. I nuovi criteri di assegnazione – fortunatamente su base triennale e progettuale: questi sì elementi positivi del decreto –, non sembrano però lasciare adeguato spazio a valutazioni “qualitative” della Commissione preposta, di cui fanno parte stimati professionisti. Si è preferito dare maggior peso a un complicatissimo sistema in cui i dati “quantitativi” (ossia, per dirla grossolanamente, numero di recite, sbigliettamento, contributi versati, etc) hanno la prevalenza: criteri sui quali hanno immediata verifica gli uffici ministeriali e la direzione generale di Salvo Nastasi.
Ma non basta. Il Decreto voluto da Franceschini fa emergere anche altri dubbi. Se da un lato, infatti, sembra aprire a un atteso e necessario ricambio generazionale – lasciando spazio a istanze “under 35” , con un accesso più “facile” al finanziamento per il primo triennio, ma molto più arduo da mantenere dal secondo – dall’altro garantisce le “rendite” consolidate del passato almeno al 70%. Ovvero ipoteca “a prescindere”, come direbbe Totò, il 70% dei fondi disponibili sottraendole agli eventuali nuovi finanziamenti: chi guadagnava, continuerà comunque a guadagnare, agli altri le briciole.
Di difficile soluzione, poi, l’ultimo nodo di questa riforma: il rapporto con gli Enti locali, Regioni in testa. Il fatto è che alcune “categorie” (soprattutto gli Stabili di Innovazione o i teatri Privati) per aggiornare il proprio livello, e diventare i previsti “Teatri di rilevante interesse culturale” (Tric: la qualifica immediatamente dopo i Teatri Nazionali) sono caldamente obbligate a trovare sostegni dagli enti locali per almeno il 40% del finanziamento ministeriale. Passi per Toscana, Umbria, Emilia Romagna. Ma già in Lazio la questione è praticamente impossibile. E in Molise? In Basilicata? In Val d’Aosta?
Che ne sarà di quei territori? Dunque Sud e Giovani: ovvero i meno “produttivi” in una riforma improntata, in gran parte, sui meriti della produttività e dell’imprenditorialità, sono gli argomenti scottanti. Il Ministero garantisce che questo primo triennio sarà di “messa in prova”, lascia tempo alle “imprese teatrali” di adeguarsi, e lascia aperti spazi per calibrare ulteriormente il decreto strada facendo. Aspettiamo fiduciosi di capire come e quanto il teatro italiano assorbirà il colpo. Però si sa: l’Italia soffre della sindrome del Gattopardo. E il rischio, qua, di non poco conto, è garantire i ricchi e falcidiare i poveri o i piccoli. Nel teatro, come altrove.
Nella foto in alto, Piccolo Teatro Studio, Milano
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