Geopolitica
Wlodek Goldkorn: “Costruire muri ci porterà alla tragedia globale”
Il libro di Wlodek Goldkorn, Il bambino nella neve (Feltrinelli) è in realtà una valigia che contiene altre valigie ognuna delle quali è necessaria ad un viaggio e da cui nessun viaggio può essere escluso. Un percorso biografico denso, emotivamente forte e dal ritmo serrato in cui il tempo presente non è quello dell’attualità, ma quello della contemporaneità. Una narrazione in cui la memoria dolorosa, intima e privata si fa carico di costruire un senso condiviso, di aprire ad una relazione vitale con il proprio presente e quindi con un futuro ignoto, ma che necessiterà del racconto di ciò che è stato, di quello che è accaduto. Wlodeck Goldkorn attraversa nella propria vita l’Europa e le sue contraddizioni politiche e sociale, la sua esistenza e quella della sua famiglia vengono calpestate dalla tragedia, dal vuoto della Shoah.
Il bambino nella neve, non è un saggio, ma non è nemmeno una testimonianza, è il tentativo riuscito di raccontare nel solco di Primo Levi un’esistenza travolta, ma non del tutto dalla Storia. Un’esistenza dolorosa come è sempre la vita, ma non per questo priva di gioie e di speranze come quelle che nascono e vivono insieme alla comparsa degli amati nipotini.
Attraversano le pagine del libro le fotografie esatte e asciutte di Neige De Benedetti che riportano al lettore il significato più profondo di un testo necessario a questi nostri confusi più che complessi tempi. Un libro che fa di una vita mille altre vite possibili ancora tutte da vivere. Il bambino nella neve attraversa la tragedia e il dolore, la storia e i confini con il passo leggero di una doppia narrazione fatta di parole e di immagini. Un doppio testo che s’intreccia e si scioglie come certi abbracci al di là della tragedia: la vita secondo Goldkorn.
Abbiamo incontrato Wlodek Goldkorn a pochi giorni dall’uscita del suo volume
Le memoria intima con il suo carico inevitabile di dolore e di tragedia può essere trasmessa e trasformarsi in memoria collettiva?
Dipende da cosa intendiamo come memoria collettiva. Io penso che un’esperienza come quella della Shoah debba essere vissuta in qualche modo empaticamente e non solo come materia di ricerca storica. Quando dico empiricamente non intendo assolutamente come identificazione – sono contro l’identificazione – ma che deve avere un’elaborazione artistica in modo che attraverso l’immaginario questa atrocità possa essere vissuta empaticamente. Questo vale ad esempio per molta parte della storia: dalle crociate, fino al genocidio armeno che per noi è in fondo rappresentato da I quaranta giorni del MussaDagh di Franz Werfel o anche dai libri molto belli di Antonia Arslan.
Senza alcun dubbio Se questo un uomo non è solo testimonianza, è anche testimonianza, ma è principalmente un’opera artistica. Primo Levi è stato uno dei più grandi scrittori del Novecento in assoluto. Pensiamo soltanto alla sua lingua manzoniana, quindi all’italiano più bello che esiste e che possa essere immaginato. Se invece intendiamo la memoria collettiva dal punto di vista storico non saprei, non me ne intendo, è affare degli storici. Diciamo che non credo molto nella memoria collettiva, ma credo molto nei simboli che uniscono. Il 25 aprile è un dato fondante della democrazia e della Repubblica Italiana così il primo maggio per il movimento dei lavoratori. E onestamente da questo punto di vista non credo proprio che la Shoah possa essere fondante di alcunché.
Cosa significa per lei “stare a casa”? Quando ha percepito pienamente la sensazione di trovarsi a casa? Lei ha un sentimento di patria?
La casa è la mia casa. È molto semplice: la mia casa è dove abito. Per quanto riguarda il concetto di patria un giorno ho chiesto a Mark Edelman cosa era per lui la patria e mi ha risposto: “l’albero nel giardino di casa mia e i miei amici”. È una risposta abbastanza cinica in fondo. Dire che la mia patria è il mondo intero come si cantava una volta però non me la sento, perché non è vero. Dire che è il luogo in cui sono nato anche questo non è vero. La patria è sostanzialmente un concetto che non mi piace. Credo però nei modi di vita che non sono i valori. Perché per i valori si commettono dei crimini, perché i valori si vogliono imporre. I modi di vita no, non si impongono.
Io penso ad esempio che gli inglesi abbiano resistito a Hitler perché volevano continuare a vivere come vivevano in quel momento: volevano il loro bobby disarmato che aiuta la vecchina ad attraversare la strada. Dopodiché in totale contraddizione nelle colonie imponevano i loro valori, il fardello dell’uomo bianco.
La mia casa è dunque dove sto bene e dove posso avere il mio modo di vita più o meno in sicurezza. In quasi tutte le lingue che io conosco la patria è femminile, ossia il corpo femminile che non deve essere violato dallo straniero e questo è un concetto che proprio non mi piace. Moltissime allegorie del patriottismo e della patria si definiscono nella donna violata dallo straniero. E tutto questo semplicemente non mi piace.
Quale è il suo rapporto con il confine? Con il concetto e anche la sua forma viste anche le “ricadute” che la contemporaneità ci pone davanti agli occhi?
Quando ero ragazzo mi affascinavano moltissimo i confini, mi piacevano, ma mi metteva anche una certa ansia attraversarli. Io sono cresciuto in un mondo pieno di confini. Il fatto che non ci fossero più i confini in Europa era una cosa bellissima, soprattuto per i giovani. Andare a Parigi era come andare a casa propria. Credo che I confini non possano essere aboliti, ma di certo possono essere permeabili.
L’assurda costruzione dei muri mi angoscia, anche perché nessun muro ha mai protetto chi cerca di chiudersi all’interno. Alla fine si finisce per essere travolti e si favorisce solo l’incomunicabilità. Di per sé non ci sarebbe nulla di male nel chiudersi al proprio interno se non che si perde totalmente il rapporto con il mondo: come una famiglia che non esce più di casa e che non vuole più ricevere ospiti. Così ci si destina solo a morire male.
Anche dal punto di vista razionale è una totale follia costruire i muri, costa più costruirli che investire nell’accoglienza, non dico di tutti, ma di certo nell’aprirsi per lo meno nei confronti di chi arriva. Non si potranno accogliere tutti, in fondo non è mai successo nella storia, ma costruire muri non ha proprio alcun senso.
Come dice Bauman, è un mondo folle dove il capitale può spostarsi con un clic del computer mentre l’umanità è divisa in due tra coloro che possono viaggiare e chi invece può farlo solo clandestinamente e pagando somme ingenti. Non si tratta solo di etica, ma semplicemente del fatto che un mondo così non può sopravvivere, non dico che sia inevitabile, ma così può solo facilmente cadere in un conflitto globale.
È delle cronache di questi giorni l’accusa di antisemitismo della sinistra labour inglese oggi a capo del Partito. Crede che sia un sentimento figlio di banale inadeguatezza o che abbia le sue radici nella sinistra storica europea?
Io credo che l’antisemitismo sia costitutivo alla cultura occidentale e alla civiltà cristiana occidentale e credo quindi che l’antisemitismo sia parte integrante del pensiero politico sia di destra sia di sinistra sia in parte del pensiero liberale. Credo che queste manifestazioni di antisemitismo nel labour britannico sono costitutive ad un certo modo di pensare della sinistra, ma credo anche che l’antisemitismo non sia una categoria eterna e metafisica ma che evolva insieme alla nostra società. L’antisemitismo ottocentesco non è paragonabile a quello del XX secolo, così come quello che si palesa oggi è ancora diverso.
Oggi l’antisemitismo si accompagna all’anti imperialismo ossia al modo di vedere complottistico del mondo. Chi legge il mio libro non può aver dubbi sul mio punto di vista riguardo alla politica di Israele, sull’occupazione militare e sulle cose terribili che Israele sta facendo a Gaza, tutte dinamiche che devono essere criticate molto severamente. Detto questo quando si parla di Israele una parte della sinistra applica una particolare cattiveria e sembra che abbia piacere nel vedere Israele fare cose eticamente sbagliate. In questo ci vedo un chiaro atteggiamento antisemita.
Che cosa è stato per lei il Novecento, che cosa ne rimane?
Il Novecento è stato un secolo di grandissimi progressi e non solo tecnologici. Il Novecento è stato il secolo dell’emancipazione delle donne che è una cosa fantastica. È stato anche un secolo fortemente contraddittorio in cui le possibilità della tecnica hanno fatto si che accadessero fenomeni come il fascismo, il nazismo o il comunismo sovietico. Ma questo è solo il mio punto di vista, io non sono uno storico o un filosofo. Io ho scritto un libro molto personale sul dolore e su come non rimanerne vittima.
Questo libro lo hai potuto scrivere solo adesso? Avresti potuto scriverlo forse anche a trent’anni?
No, ho potuto scriverlo solo adesso perché ho superato l’eta di sessant’anni e perché sono nonno. E credo che questo spieghi tutto. Non avrei potuto scriverlo prima perché bisogna essere anziani e quindi guardare alla propria vita con una certa serenità. Quello che ho fatto ho fatto: non ho più molte illusioni, ma ho molte speranze. E poi perché quando nascono i nipoti il futuro non ti riguarda più se non come passaggio di memoria, cosa che non vale per i figli. Con i nipoti si è liberi, è vita nuova. Con loro non si hanno responsabilità. È così importante raccontare e spiegare che il dolore va elaborato e che anzi non deve trasformarti e che non deve in ogni modo impedire il desiderio. Anzi al contrario: si può anche trasformare il dolore in desiderio e questa è una cosa che ho imparato dalle donne che ho conosciuto e frequentato. E che riguarda la vita, perché la vita è dolorosa.
Esiste un dolore privato intimo o anche un dolore in un certo senso storico?
Il dolore è dolore. Non importa se il vuoto che te lo causa sia dovuto alla Shoah cioè alla distruzione di un mondo o sia dovuto ad un perdita solo personale che non riguarda il mondo intero. È sempre dolore e anche per questo ho pensato di raccontare una sorti anche fosse universale. Solo casualmente il mio vuoto riguarda anche l’Europa e l’Occidente. Perché per me la Shoah è il vuoto e questa è la differenza tra la mia percezione della Shoah e la percezione canonica. Poi capisco che la Shoah venga riempita con molta retorica perché non si può vivere con il vuoto così come comprendo anche le esigenze politiche e pedagogiche di dare un contenuto a questo vuoto. Per me è solo vuoto e del vuoto non si fa nulla.
Come è stato il confronto e il dialogo con Neige De Benedetti attraversando i Campi?
Conosco Neige De Benedetti da moltissimi anni, qualche anno fa lei è andata con altre persone in Polonia e ad Auschwitz e le ho chiesto di mandarmi una foto e lei mi ha mandato una foto di Birkenau. Era la prima volta che vedevo una foto dei Campi in cui veniva fotografato il vuoto. In genere nelle foto di questo tipo vengono mostrati i simboli della sofferenza, i simboli del martirio. Si vuole accentuare la tragedia.
Così ho pensato che sarebbe stata una cosa molto bella avere nel mio testo le foto di Neige. Perché se uno si mette a scrivere un testo sul vuoto che è anche la parola più ricorrente del mio libro, è bene appoggiarsi a delle foto. Queste foto non sono illustrazioni, ma sostengono totalmente il mio testo.
E poi era per me molto importante fare questo viaggio con una persona giovane. La sua presenza ha così influenzato anche come ho scritto e raccontato il nostro viaggio nella seconda parte del libro, quella dedicata ai Campi. E infine avevo la necessità che fosse una donna e non un uomo ad accompagnarmi, perché avevo bisogno della diversità femminile nel sentire. In sostanza quando Neige mi mandò quella foto capì che anche lei avvertiva come un vuoto questa storia.
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