Storia
Voci di popolo povero e dolente. L’Italia fascista che scriveva al duce
Uno dei meriti di Un monumento di carta (Feltrinelli) di Giovanni De Luna e Linda Giuva è quello di proporre una fotografia del funzionamento del regime fascista, di scavare nel rapporto tra governati e personalità di Mussolini, ma allo stesso tempo di proporci un viaggio di come nel tempo si è prodotto il meccanismo di legame tra sudditi e potenti nella storia dell’Italia contemporanea.
Oggetto del libro è un archivio e lo scopo di studiarlo non è quello di restituirci delle sorprese o di raccontarci dele novità, ma quello di misurare la consuetudine. Di rompere l’immagine della dittatura fascista come regine eccezionale rispetto al «modello italiano» e allo stesso tempo di spiegare e di illustrare il funzionamento della dittatura attraverso i sentimenti. Un funzionamento che ha un fondamento burocratico, ma, allo stesso tempo, è fatto del vissuto di migliaia, di decine di migliaia di cittadini, uomini e donne, anziani e giovani che maturano un rapporto di reverenza e di confidenza con il fascismo, con il suo capo.
Il corpo della documentazione su cui hanno lavorato Linda Giuva e Giovanni De Luna è il fondo archivistico della Segreteria particolare del Duce, conservato presso l’Archivio centrale dello Stato di Roma. Un fondo in cui il corpo di quelle lettere è una riproduzione fedele della stratificazione culturale, sociale, economica d’allora.
Centinaia di migliaia di donne, bambini, operai, che chiedono aiuti, denaro, raccomandazioni, benedizioni. E le risposte arrivano con percentuali sorprendenti, con una Segreteria che arriverà ad occupare quasi ottanta persone.
Ce tipo di lettere sono quelle che costituiscono il corpo dei fascicoli della Segreteria particolare del Duce?
Lontani dal clamore delle piazze e delle adunate oceaniche, nel chiuso delle proprie case, uomini e donne raccontavano al duce le proprie sofferenze: La mancanza di lavoro, situazioni familiari pesanti, gli sfratti, la difficoltà a curare la propria salute e quella dei cari, donne vedove o orfane con famiglie numerose da gestire, giovani donne prive di corredo per sposarsi, bambini che non possono andare a scuola per mancanza di scarpe o di libri: si scrive al Duce per avere un aiuto concreto.
È l’Italia degli umili ciò che emerge da queste lettere. Insieme una realtà di dolore che forza le barriere della propaganda e della censura, guasta il quadro idilliaco di una Italia fiorente e fa giungere direttamente al duce le sofferenze del popolo.
È soprattutto in questa tipologia di lettere, del “bisogno e della fame” che si manifesta il malcontento verso le strutture periferiche del partito e dello stato che vengono indicate come corrotte e incapaci a risolvere i problemi, indifferenti e lontane dalle necessità degli umili cittadini, invischiate in giochi di potere.
Un corpo di lettere che allo stesso tempo indica quale fosse la forza del mito del Duce del fascismo e ‘inconsistenza della ‘Italia fascista in termini di efficienza, funzionamento, soddisfazione.
Per certi aspetti la rappresentazione di un codice costante nella storia dell’Italia unita: quello della richiesta di protezione al potente perché il sistema politico conferma la sua fisionomia discriminatoria, punitiva.
Ma allo stesso tempo l’immagine del Capo del fascismo che merge nell’immaginario di chi gli scrive non è quello del leader indiscusso, del Capo politico. Paradossalmente si scrive a Mussolini perché è il capo ma sci si rivolge a lui come si parlerebbe a uno di famiglia, al padre che ha perduto un figlio. In breve si scrive al Mussolini monumentalizzato, ma si chiede aiuto al buon padre di famiglia, al figlio del fabbro romagnolo che, avendo conosciuto le miserie e le difficoltà della vita, poteva maggiormente capire i bisogni del popolo.
Così è alla figura paterna che ci si rivolge, il che conferma la matura mitica del potere del fascismo, ma allo stesso tempo quel codice risulta non burocratico, quale un sistema con un forte senso della gerarchia dell’ordine dovrebbe suscitare. La sensazione è che in quelle carte ciò che emerge, alla fine, sia tanto la forza come la debolezza di un sistema politico che rimane ancora dentro l’immagine non di un nuovo ordine, ma della pratica di opposizione a un ordine che dichiara di aver distrutto ma che nell’immaginario rimane in vita e il potere stesso coltiva per poter legare a sé un sentimento di riscatto che la dittatura deve sollecitare, se non con ciò che fa, con le aspettative. Anche per questo con il tempo le lettere al duce crescono di numero.
Un dato che è testimoniato paradossalmente proprio dal rapporto tra situazione reale e immaginario.
“Nell’ultimo mese, in quel fatidico 1943 – scrivono nelle ultime pagine Giuva e De Luna – le lettere che arrivano alla Segreteria particolare, erano le solite, quelle con richieste rese solo più accorate dalle emergenze legate alla guerra: richieste di sussidi, di un posto di lavoro, di un reintegro dopo un ingiusto licenziamento. Tra le ultime quelle di una donna che rinnova la sua fiducia ”. [p. 209].
È il 28 luglio 1943. Mussolini è caduto da tre giorni, ma la fede nell’intervento salvifico del potente è ancora profonda. È uno dei tratti che rimarranno anche dopo. Un aspetto di quella continuità tra Italia fascista e Italia postfascista che si manterrà a lungo. Forse è una continuità che ancora ci riguarda. Oggi nel 2024.
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