Storia
Venti anni dopo l’Europa va a Srebrenica a cercar se stessa e non si trova
Alla fine, venti anni dopo, il mondo ufficialmente è andato a Srebrenica. Aveva cominciato Papa Bergoglio a girarci intorno, nella sua visita pastorale di un mese fa.
Allora quello che non era ancora avvenuto, sembrava abbastanza impossibile avvenisse. Venti anni dopo ufficialmente, avendo il ruolo e la forza morale per farlo, ha convocato un qualche cosa sabato 11 luglio, a venti anni dalla corsa folle e disperata dei musulmani di Srebrenica in fuga verso la salvezza per molti di loro finita con la violazione del loro corpo, lo stupro, la morte.
Si potrebbe esser contenti o, almeno dire con gravità, e per quel che vale con soddisfazione che alla fine la costanza paga.
Non ne sono così sicuro. Non m’interessano i fischi al leader serbo anche se probabilmente alla fine è forse la scena che rischia di rimanere. Quei fischi dicono in differita, venti anni dopo, quello che chiunque avrebbe voluto fare venti anni fa.
«La memoria non è il ricordo. La memoria è quel filo che lega il passato al presente e condiziona il futuro». Potrebbe essere il principio con cui ieri valeva la pena ritornare a Srebrenica. Non per commemorare, ma per riflettere su chi siamo noi ora. È probabile, e rispetto chi è tornato a insistere questi giorni su questo punto, che il centro della commemorazione a Srebrenica sia rappresentato dai morti. Quei morti hanno certamente rispetto, non foss’altro perché preliminarmente si tratta di riconoscere a essi la dignità di esseri umani non meno degni di rispetto di altri. Se ci limitiamo dunque a questa questione, se il problema era “rimettere le cose al loro posto” allora è giusto essere andati a Srebrenica in nome di una guerra contro l’oblio, per la memoria. Lodevole. Le commemorazioni hanno questa funzione.
Tuttavia, ho l’impressione che a Srebrenica si sia nuovamente consumato un bluff, e che il centro della questione sia rimasto di nuovo inevaso. Perché la questione dell’uso politico e del significato politico della memoria, non è solo una guerra all’oblio. Insomma non è una terapia per combattere l’amnesia. La politica può essere solo un calendario civile dove si va a dire “Io mi ricordo”? Non credo. La politica è sapere che un disastro politico è avvenuto per deficit di politica, per una politica che non si era in grado di esprimere, per un progetto politico che non c’era e per l’incapacità, laddove ci fosse stato, di praticarlo.
Detto in breve, Srebrenica è stato l’ultimo anello di una lunga catena che venti anni fa testimoniava, nell’ordine: inesistenza dell’Europa politica, incapacità di saper pensare oltre il proprio confine nazionale e oltre il proprio interesse nazionale, intraprendendo una strada di responsabilità dove “patria” è là dove si combatte per la libertà e dove combattere per la libertà significava riaffermare quei principi di pluralismo di democrazia, di tolleranza che si trovavano in bilico. Ma anche significa sapere che la libertà non solo una condizione dello spirito, è la risultante di una dura lotta. La costruzione dell’Europa non era, e non è (perché il problema è ancora in gran parte davanti a noi) la somma di Stati preesistenti, ma la costruzione di una ragione di un attore politico, che ha a cuore il futuro: sa cosa può ripresentarsi per proporre un futuro che non vogliamo e combatte anche perché sia possibile un futuro diverso.
Srebrenica è l’ultimo anello di un’assenza, di un vuoto politico che fa accadere ciò che li avviene tra il 9 e l’11 luglio 1995, in una domenica-martedì di un luglio caldo e sonnolento, su cui ancora venti anni, sarebbe bene pensare. L’Europa, venti anni dopo, è ancora tutta lì, con le sue incertezze e alla fine, ciò su cui ci troviamo a riflettere è intorno alla stessa inconsistenza politica di allora, aggravata da una crisi politica delle proprie democrazie che allora non c’era e che oggi invece costituisce la novità di un’Europa in cerca di un ruolo e di un’identità.
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