Storia
Vajont: 9 ottobre 1963: questi 60 anni di passato riguardano il nostro futuro
Forse torneremo a parlare di Vajont in questi giorni, un tema e una vicenda che non ha ancora trovato posto dignitoso nei libri di storia dell’Italia repubblicana, ancor meno nei manuali di storia per i licei.
Se e come ne riparleremo dipende da due libri: La tragedia del Vajont di Marco Armiero e Mai più Vajont di Paolo di Stefano e Riccardo Iacona. In parte entrambi sono la risposta a un vuoto.
Il tema è la memoria, ma anche la costruzione di una memoria che non sia solo dolore o pianto, per riprendere una sollecitazione che Giovanni De Luna sottolineava più di dieci anni fa. La memoria oggi prima che riconoscimento del proprio lutto o dell’offesa subita è consapevolezza che occorre avere conoscenza del passato per pensare futuro.
Come scrive Armerio: “Il paradigma vittimario trasforma la violenza in un incidente (…) nella narrazione vittimaria non c’è spazio per la politica perché non c’è spazio per la storia intesa come stratificazione di conflitti e potere. Invece – prosegue Armerio – al Vajont tutto era politico. E in questa storia che mischia natura ed economia, potere e scienza, tecnologia e memoria, le vittime non sono mai solo vittime ma anche ribelli” [p. 88]
Superare questa condizione non significa solo affermare la necessità di una memoria consapevole, ma anche ritrovare e valorizzare una pratica.
Quella pratica riguarda la riflessione sul giornalismo d’inchiesta una pratica e una cultura che nella storia italiana spesso si riassume in questa maschera: un individuo solo, solitario, a rischio isolamento e, talvolta, anche a rischio lavoro.
È un dato del passato che continua a essere vero nel nostro tempo presente.
Questa è la prima lezione che si ricava da Mai più Vajont, il libro a cura di Paolo di Stefano e Riccardo Iacona con cui una nuova casa editrice, “Fuoriscena” appunto «entra in scena».
Il tema è appunto il Vajont, ma soprattutto è come il mondo dei media, si misura con un evento che alcuni percepiscono come un disastro incredibile, altri guardano con perplessità e solo un giornalista, Tina Merlin, aveva intuito e denunciato con coraggio e, appunto come da tradizione del vero giornalismo d’inchiesta, in solitudine.
Dentro a Mai più Vajont ci sono tutte le penne maschili del giornalismo italiano che abbiamo imparato a conoscere nell’Italia della Repubblica (Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Dino Buzzati, Giampaolo Pansa, Corrado Stajano, tra gli atri) e una sola donna, Tina Merlin. Di tutti alla fine in mente e nelle domande che il lettore si fa, rimane solo lei a essere il dominus della scena.
La vicenda di Tina Merlin (1926-1991), corrispondente e poi giornalista de “l’Unità” tra anni ’50 e anni 1980, è significativa. Tina Merlin ha acquistato una certa notorietà a proposito della vicenda del Vajont, del suo impegno reiterato, motivato e documentato, nella denuncia, prima, molto prima del 9 ottobre 1963, quando avviene la tragedia.
Il Vajont uno dei tanti episodi di pessima gestione del territorio, di corruzione economica, di corruzione politica nella storia italiana del XX secolo, fin dalla sua progettazione alla fine degli anni ‘20.
Contro quel sistema Tina Merlin, tra il 1956 e il 1963 (ma anche dopo, quando il tentativo di molti è di insabbiare, di chiudere il caso, di tacitare lo scandalo), conduce una battaglia in solitudine, anche a fronte dell’imbarazzo del suo partito (il PCI) che la segue di malavoglia, un giornale per cui scrive (“l’Unità”) che la sollecita, ma allo stesso tempo teme le conseguenze di questo suo impegno.
E tuttavia quella non era solo una battaglia occasionale.
Dietro c’era il profilo culturale, mentale, la quotidianità di una vita reale, di una comunità cui Tina Merlin sa di essere parte. Un popolo che chiede informazioni, che riceve parole, che non riesce a essere persuaso da quelle parole, e che perciò torna a chiedere.
Oggi diremmo una società civile “virtuosa” che interpreta il suo interesse personale e di comunità, come interesse collettivo. Ma che allora (ma spesso per i poteri anche quelli che si travestono di populismo e che fanno conto di rappresentare gli interessi dal basso,) era percepita come e con «fastidio». Un soggetto collettivo che non vuol capire di «dover stare a casa sua».
Per una volta la morale «tengo famiglia e mi faccio i fatti miei» esprime un interesse collettivo reale: chi subisce le decisioni di altri la propone come la risorsa per riprendere il controllo del proprio territorio.
Ma il potere (che pure nella storia millenaria del nostro paese da quella massima ha sempre ricevuto vantaggi) questa volta la contrasta perché ne avverte la pericolosità.Perciò la denuncia come diffidenza e dunque la isola. Peggio: nel caso di Tina Merlin la criminalizza.
Questo è il destino Tina Merlin come emerge anche da Mai più Vajont.
In prima istanza quell’impegno civile per un territorio, o l’attaccamento alla propria gente, nascevano dalla convinzione che la montagna e le genti di montagna perdessero ancora una volta, mentre i giochi della grande politica e le scelte di politica industriale (in breve la storia concreta) si facevano ancora sulle loro teste e a loro spese. Un sentimento non è solo suo, che condivide con Nuto Revelli che in quegli anni, con Il mondo dei vinti, si dedica a dare voce a chi rischia di perderla per sempre.
Tuttavia, dietro a quell’impegno c’era anche una storia di vita fatta di sentimenti e di convinzioni.
Nell’ordine: ira, contro il mondo ricco cui era andata a servizio per molti anni dall’età di 10 anni quando uno stupido maestro non le concesse il diploma elementare obbligandola a abbandonare la scuola; entusiasmo per la libertà e per l’impegno nella lotta partigiana; dolore per la morte dei fratelli in guerra l’ultimo dei quali beffardamente ucciso il 26 aprile 1945; mestizia per i genitori, avvisati lontani, dura la madre taciturno il padre, ma di cui avvisa l’affetto troppo tardi al momento della morte; militanza politica che scopre piena di gelosie, rivalità, ricatti, in quel Pci a cui decide di aderire dal 1946; impegno per una legge per la montagna che non arriva; delusione verso i dirigenti del suo partito e del suo giornale (nazionali e locali) di cui avverte sempre più la dissoluzione, morale, prima ancora che politica.
Scrive negli anni ’80 che raccontare «ai figli e ai figli dei figli» la storia di quella catastrofe annunciata e provocata, non serve per coltivare il rancore, bensì “per insegnar loro a battersi per la giustizia e per la dignità della persona umana”.
E poi precisa:
“La Sade, il monopolio che uccise, in fondo ci interessa poco: faceva i suoi affari come tutti gli imprenditori del mondo. Sapendo che li poteva impunemente fare, che glieli lasciavano fare. Era il burattinaio che tirava i fili e faceva muovere i burattini – scienziati e politici – come voleva.
Il potere era lei, perché il vero potere aveva abdicato”. [Tina Merlin, Sulla pelle viva, p. 20]
Non per la verità o per sanare il passato, ma per poter pensare futuro diverso.
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