Storia
Utoya, luogo di memoria della «nuova Europa»?
Forse ha un senso che il progetto di memoriale che ricorda la strage (avvenuta dieci anni fà, il 22 luglio 2011) sia una struttura che ricalca il profilo dell’isola, tagliandolo verticalmente in due. Anche se è bene ricordare che Utoya fu solo uno dei due luoghi di strage, l’altra fu a Oslo. In tutto 77 morti e 319 feriti.
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Nel 2015 Andrea Porcheddu si è chiesto se qualcuno si ricordava dove fosse Utoya. La domanda era pertinente allora e continua ad esserlo ora.
Ci ho ripensato nei giorni scorsi in seguito ai fatti di Voghera (per uno strano scherzo del destino accaduto alla vigilia del decennale della strage di Utoya.
Utoya, ha scritto Donatella Di Cesare, ha segnato “l’avvio simbolico del suprematismo europeo”. Evento che sta dentro un processo che per certi aspetti comincia prima e lì non si ferma, qui da noi in Italia, come ha scritto Ezio Mauro.
Dunque primo dato: Utoya non è un’eccezione. È parte dello scenario possibile, reale e concreto del e nel nostro tempo presente.
Ovvero espressione di un processo né estraneo né alieno alla nostra realtà.
Utoya è una spia indiziaria e indica qualcosa che nasce e si consolida dentro la nostra realtà.
Proviamo andare diritti alla questione: Anders Behring Breivik, l’ideatore ed esecutore della strage di Utoya, non è un corpo alieno, ma come ha ricostruito con scrupolo e precisione Åsne Seierstad, è uno di noi.
Più precisamente: il prodotto di un percorso emozionale, ma anche il risultato di una precisa cultura politica che sta a pieno diritto nella fenomenologia e nella famiglia delle destre europee con cui nessuno in questi dieci anni in quella famiglia larga ha voluto fare i conti. Comunque ha evitato (finora con successo) di farli.
Anche questo credo sia un problema politico di rilevante.
Torniamo indietro di 10 anni non sulla scena della strage, ma su ciò che segue immediatamente.
Jens Stoltenberg, allora Primo ministro norvegese, all’indomani della strage fatta Anders Behring Breivik il 22 luglio 2011, dichiara solennemente che la miglior vendetta è una maggior democrazia e che il 22 luglio non sarebbe diventato l’11 settembre della «società aperta» norvegese.
Capisco l’affermazione, ma il tema dieci anni dopo, ma già allora, era un altro.
Abbiamo (ma già allora avevamo) un problema in Europa che riguarda i sentimenti profondi che girano nel continente e che cozzano frontalmente con ciò che dichiariamo che sia l’identità europea (tolleranza, libertà, pluralità, democrazia). Quei sentimenti non girano nelle periferie o nelle aree depresse, ma nelle società che per decenni abbiamo associato all’immagine della libertà. Società che nel corso del ‘900 si sono contraddistinte per una pratica libertaria radicale e che sono apparse agli occhi di molti come società “libere” (Svezia, Finlandia, Norvegia, Danimarca, Paesi Bassi) e realtà in cui è forte il richiamo comunitario nazionalista (p.e. l’Ungheria o la Polonia). Non sono realtà povere. Il motore di tutti questi movimenti non è la povertà, è la delusione da attesa.
Dentro a questa condizione si collocherà la riflessione pubblica nel ventennale dell’11 settembre. Molti insisteranno sul tema della sicurezza. Ma il l malessere dell’Europa, oggi, e allora dopo il 22 luglio 2011, non riguarda la sicurezza, riguarda la capacità, la volontà e la determinazione a vivere in società libere e democratiche.
Dal 22 luglio 2011 sono tornate ineludibili, le questioni inerenti l’ascesa e la forza di una destra radicale. Vuol dire che il problema non è la sicurezza, ma l’ideologia della sicurezza.
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Le scene di Utoya, ma insieme potremmo aggiungere le molte scene di radicale xenofobia che qua e là hanno popolato e popolano le piazze dell’Europa nei dieci anni dopo Utoya e nei dieci anni prima di Utoya – non dimentichiamolo il nuovo millennio in Europa inizia significativamente con l’ascesa politica di Jörg Haider e del suo Fpö – sono figlie di quel malessere e testimoniano di una storia lunga. Non sono un episodio eccentrico, né rappresentano una deviazione rispetto a una regola.
Quelle scene dicono che sono in bilico varie cose. Tra queste risulta sempre più incerta e precaria la definizione di una condizione culturale fondata, si diceva negli anni ’90, sull’ipotesi della convivenza e dell’intercultura, fortemente radicata sulla storia dei diritti, costruita sulla memoria delle emancipazioni e integrazioni delle minoranze, incentrata sull’idea di società aperta.
Quello scenario è lentamente venuto meno in questo decennio.
Nel suo venir meno, tuttavia, non ha solo ristretto le maglie di una società larga, ha anche dato spazio, legittimità, legittimazione, e ascolto all’insorgenza di nuovi movimenti politici per i quali identità europea non significa società aperta. Al contrario: significa rivendicazione di una frontiera e, soprattutto, una domanda potente di radici.
In questo processo è cambiata anche una visione dei diritti della persona.
Mi spiego.
Ciò che chiama in causa questa situazione non è già l’idea di minoranza, ma la percezione che le maggioranze hanno della realtà e di ciò che a loro giudizio si mette in gioco se si ampliano le norme che tutelano o garantiscono le minoranze o le differenze. È, per esempio, il paradigma culturale che si è messo in moto implicitamente nella discussione sul ddl Zan (indipendentemente da come sia scritto quel testo).
Il problema viene prima e non riguarda la scrittura corretta o emendabile. Riguarda il principio stesso che sta in quel testo. Del resto era già successo nel settembre 2013 quando la Camera dei deputati passa il ddl sulla omofobia che si insabbia al Senato.
Il principio che allora portò a un nulla di fatto è ancora in atto in queste settimane.
Da che cosa discende?
Nessuno oggi metterebbe in discussione la legge Mancino del 1993 che stabilisce il reato d’istigazione al razzismo e all’antisemitismo. Perché’? Non credo né per una convinzione ideologica, né perché chi è al potere in Italia subisce il ricatto di una lobby, bensì perché quella legge tende a proteggere soggetti e culture che si presumono «di nicchia» e dunque che non minacceranno la maggioranza. Meglio: non toccheranno le opinioni e le convinzioni di chi è maggioranza nel Paese.
In breve si tutela una minoranza che nel giudizio politico è destinata a rimanere minoranza (è lo stesso principio per cui s’inizia a una campagna a favore del panda; o si proibisce la caccia alla volpe, almeno in un certo periodo).
La questione dell’omofobia invece crea problema, evidentemente, perché la decisione non è mossa dal diritto violato cui bisogna riparare o garantire, ma dalla convinzione che tutelando quel diritto, si legittima uno stile di vita che rischia (per alcuni è certo) di ledere e di soppiantare lo stile di vita, i criteri etici, la morale della maggioranza. In altre parole in questo caso non si tutela qualcuno perché si è convinti che la decisione contraria sia autolesionista e alla fine l’esito sia la trasformazione dell’attuale maggioranza in minoranza.
Se è così, e a me sembra che sia così, questa logica politica proietta un’ombra lunghissima sul piano dei diritti delle garanzie e delle tutele in Italia. Non solo. Indica che ciò che dieci anni fa non era ancora esplicito, ora, invece lo è.
In breve è cambiato radicalmente qualcosa in questo tempo, forse in silenzio, ma non senza conseguenze.
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Ciò che è cambiato è il paradigma culturale del nostro tempo e complessivamente quello inaugurato dalla coscienza pubblica dello sterminio proprio del Secondo dopoguerra. Se a partire dal 1945 – anche se sostanzialmente a partire dagli anni ’60 – i diritti di minoranza e di tutela delle minoranze sono stati percepiti, promossi e posti nell’agenda politica prima dei governi nazionali europei, poi della UE nel percorso di costruzione dell’Europa, come difesa delle minoranze e dunque in nome di una società più aperta e (per quanto a molti non piaccia questo termine) multiculturale, e forse, auspicabilmente, interculturale, ora quella visione è fortemente in crisi (a me pare sul punto di eclissare).
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