Storia
Uno spettro si aggira tra noi: il complotto
Il 6 gennaio scorso abbiamo visto cosa significa credere ai complotti.
Per chi non ricorda: migliaia di manifestanti assaltano Capitol Hill per rovesciare l’elezione di Joe Biden. Certi dell’esistenza di un oscuro complotto, molti sostenitori di Trump erano davvero convinti di essere in missione per conto del misterioso QAnon, una gola profonda che attraverso messaggi segreti sparsi su internet dichiarava che il suo intento era fermare una setta di pedofili sanguinari capeggiata da Hillary Clinton.
Errico Buonanno nel suo Non ce lo dicono (Utet) parte da qui per ripercorrere con pazienza, ma anche con ironia (il che non guasta affatto, anzi) un tema che spesso nella discussione pubblica e nella storiografia è stato affrontato con gravità: quello del fanatismo delle credenze e degli effetti del fanatismo, ma anche della forza delle credenze.
“Una teoria del complotto – scrive Buonanno – non è qualcosa di innocente, e poco, pochissimo, ha a che fare con il semplice sospetto. Un a teoria del complotto parte sempre in maniera piuttosto volontaria e costruita per colpire qualcuno”.
Perché il problema, e Errico Buonanno lo esplicita subito fin dall’inizio, non è se la teoria del complotto è falsa, ma perché nella storia ogni volta che si è ripresentata nello scenario della discussione pubblica ha avuto grande successo di pubblico e la fatica di dimostrare qualcosa è stata sempre dalla parte di chi sostiene che i complotti sono un falso.
Come diceva Umberto Eco i complotti reali non sono interessanti perché quello che è centrale è la «sindrome del complotto», e il favoleggiamento di complotti, di cui è popolato il mondo del web, che rimangono misteriosi, perché hanno la stessa caratteristica del segreto su cui invita a riflettere Georg Simmel: tantopiù è potente e seducente, quanto più è vuoto. Ma anche tanto più è conclamata una società della trasparenza.
Dunque prima di tutto: perché chi sostiene che c’è un complotto non ha necessità di dimostrarlo?
Perché, argomenta giustamente Buonanno, chi è convinto che tutta la realtà sia il risultato di complotti realizzati o in atto, vive contemporaneamente una doppia condizione: di angoscia e di sollievo. Angoscia perché pensa di essere prigioniero di forze oscure; sollievo perché niente è incomprensibile. Sapere di essere vittime di complotti rende la propria vita eroica, anziché banale, perché arricchita e motivata dalla “consapevolezza di una missione”. Una condizione alternativamente di pessimismo vittimizzato (qualsiasi cosa si faccia non cambierà) e di volontarismo superomista (chiamare a raccolta tutti per liberarsi dall’oppressione).
La lotta al complotto ha anche un altro aspetto: quella di “lotta per la verità”. Chi crede ai complotti ritiene di sapere la verità per due motivi: perché dimostrare il contrario non è possibile e comunque proprio quello che andrebbe dimostrato – l’esistenza del complotto – si dà per acquisito; come tutte le lotte per la verità, sa che troverà resistenze, opposizioni. La prima vittoria contro il complotto è l’estensione di coloro che si convincono della sua esistenza.
Laddove la battaglia per la verità non vuol dire solo affermare che ciò che succede sia falso o rovesciato, ma che spesso sia sostanzialmente inventato.
“Mai come negli ultimi anni – osserva Buonanno– la tendenza a negare quello che ci viene detto o mostrato ha avuto tanta rilevanza sul pensiero comune. Le teorie del complotto un tempo partivano proprio dall’idea opposta: qualcuno ha tramato per far succedere qualcosa. I nuovi dietrologi sostengono che non sia successo niente, invece, e che l’élite abbia fatto in modo di farci credere che sia successo, come in un gioco di prestigio mondiale” (il corsivo è di Buonanno).
Ritorna qui la logica della trasparenza. Ma essa si accompagna a un’ulteriore questione su cui Errico Buonanno insiste: la questione del nemico.
Dentro alla sindrome da complotto, della fisionomia dell’idea di complotto da sventare, sta la ricerca, per certi aspetti l’ansia, di costruire un nemico. Per due motivi, per certi aspetti eguali e contrari.
Il primo: i nemici sono diversi da noi e si comportano secondo costumi che non sono nostri (da cui una delle questioni è quanto “aperta” e se deve essere aperta la società che vogliamo).
Il secondo: vere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per definire un sistema attraverso il quale stabilire un confine, dare forma a un ostacolo (e dunque porre un limite) rispetto al quale misurare il sistema di valori a cui aderiamo e su cui definire, valutare e misurare, chiunque ambisca ad accedervi.
E d’altra parte si esce dal libro di Buonanno se non più consapevoli, certamente più accorti anche contro il la facile convinzione di essere immuni da una sindrome che è molto più diffusa, distribuita e alla fine presente nella nostra quotidianità.
Percorso su cui da anni, con intelligenza e con passione ci inviata a considerare lo psicologo Rob Brotherton nel suo Menti sospettose (Bollati Boringhieri) il quale insiste nell’indicare quanto sia facile cedere alla narrazione complottista. Forse, al massimo, possiamo capire come sia possibile sfuggirvi. Ma non si cade nel complotto: spesso per quanto sia amaro dirlo, il percorso più comune è quello di fare lo sforzo di abbandonare il terreno del complotto, o di sfuggire alle sue sirene.
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