Storia

Lo spettro dell’antisemitismo che si aggira in Europa

29 Novembre 2019

Il 19 febbraio 2019 Il governo ungherese di Viktor Orbán ha lanciato dalla propria pagina Facebook una campagna mediatica contro il finanziere e filantropo George Soros ed il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, accusati di favorire l’immigrazione clandestina e di minare la tenuta delle frontiere del Paese.

È la sanzione di un processo avviato ormai da un decennio che è costituito da due elementi: il primo sancisce la fine del modello su cui si è costruito gran parte del processo europeo a partire dal 1992: una parte dell’Europa che fa da traino e una parte inclusa che va a cercare protezione nell’Europa, pensando così di rispondere alla storica paura della Russia imperiale.

Quel modello, che esplicitamente e implicitamente ha accompagnato la vicenda europea a partire dalla crisi e poi dal crollo del blocco comunista a Est ha iniziato a infrangersi nel 2015, quando proprio l’Ungheria di Orbán ha stretto un patto di interesse con la Russia di Putin (non senza reciproche diffidenze), a proposito dello sviluppo della centrale nucleare di Packs, cui si oppose a lungo l’Austria.

Il tema della “sovranità” dell’Europa, di un’Europa identitaria, alternativa all’Europa dei liberali, nasce lì, alla fine dell’estate di quell’anno.

Dentro al modello proposto dall’Ungheria di Orbán stanno i neo etnicismi, i neo nazionalismi, la costruzione di una teoria dell’appartenenza nazionale fondata sul discorso politico del complotto e dell’invadenza delle forze straniere (incluso il risorgente antisemitismo): un concentrato di opinioni, di sensazioni, di sensibilità e di parole che in Europa hanno già avuto corso e che proprio per la loro consistenza sono capaci di riattivarsi velocemente in forza di una traccia che è presente in profondità nell’idea stessa di Europa.

In breve una reincarnazione della macchina mitologica antisemita su cui molti anni fa richiamava l’attenzione Furio Jesi, l’intellettuale più odiato dai fascisti.

Un profilo e un paradigma politico che da molti punti di vista ha una lunga storia, che nasce non negli ultimi venti anni, ma data almeno dalla fine degli anni ’10 del ‘900 e su cui Paul Hanebrink, con il suo libro, ci fornisce alcuni elementi per ricostruirla.

Che cosa ricostruisce il libro di Paul Hanebrink?

Sostiene Hanebrink che nel corso del XX secolo (ma nell’ultimo capitolo la sua analisi si spinge fino a identificare nel processo di costruzione dell’immaginario sovranista una perpetuazione dello stesso processo culturale) l’Europa sia stata perseguitata da una minaccia scaturita dalla propria immaginazione: il bolscevismo giudaico. Hanebrink sostiene che l’dea del bolscevismo giudaico “mette in primo piano alcuni precisi stereotipi riferiti agli ebrei, caricandoli di un significato nuovo. Tre sono i pilastri che hanno rilevanza e tutti e tre hanno un fondamento nell’antigiudaismo tradizionale.

Il primo: associare ebrei e l’ebraismo all’eresia, ovvero al disordine.

Il secondo: collegare e riprendere la convinzione dell’esistenza di un complotto ebraico internazionale.

Il terzo: la figura dell’ebreo bolscevico incarna in forma secolarizzata paure assai antiche del fanatismo anti-ebraico, per esempio l’accusa del sangue. Accusa che è un’invenzione e che non è fondata su fatti. Per controbatterla occorre smontare la convinzione dell’accusatore, scavando nelle figure immaginarie dell’antisemitismo, sia di quello popolare sia di quello colto. Ovvero è necessario comprendere non solo i miti, ma la macchina mitologica che produce superstizioni, credenze, luoghi comuni.

 

La rivoluzione russa, la presenza al suo interno di quadri anche ebrei, rafforza questa macchina mitologica che immediatamente si diffonde in Europa, soprattutto in Europa centrale e particolarmente in Ungheria, soprattutto sostenuta da un vocabolario e da una parte consistente di mondo cattolico che rimette in corsa e ravviva un antigiudaismo che gli appartiene e che nell’ultimo quarto del XIX secolo aveva avuto un momento di tregua.

 

È un timore che nell’area suprematista bianca degli Stati Uniti odierni ha conviti sostenitori [per esempio come si può leggere qui]

Questo mito – che riteneva il comunismo un complotto ebraico volto a distruggere le nazioni d’Europa – era una fantasia paranoica, eppure i timori di una cospirazione giudaico-bolscevica si affermarono dopo la Rivoluzione russa e si diffusero in tutta Europa, soprattutto negli anni tra le due guerre.

Una ossessione che tuttavia ha dinamiche di immaginario complottista diversa e, per certi aspetti, opposta a quelle proprie del Medio Evo e della prima Età moderna.

Ovvero: mentre nell’immagine del complotto proprio delle società tradizionali gli elementi costituitivi sono dati dalla trasparenza del potere e dalla opacità della società. Il sospetto si volge a indagare settori della società, che appare come un soggetto a identità ambigua. In questione non è l’identità del potere, ma quella della società. Nell’immagine del complotto proprio delle società moderne è invece il potere, anzi del “vero potere” ad essere in discussione e sotto indagine. La denuncia del complotto in questo caso avviene in nome del funzionamento democratico della società. Anzi si accredita come la fondatezza democratica del potere stesso.

Il racconto di Paul Hanebrink inizia con i movimenti controrivoluzionari che turbavano l’Europa alla fine della Prima guerra mondiale. Fascisti, nazisti, cristiani conservatori e molti altri europei, terrorizzati dal comunismo, immaginavano i bolscevichi ebrei come nemici sul punto di varcare i confini per sovvertire l’ordine dall’interno con le loro idee devastanti. Negli anni che seguirono, il bolscevismo giudaico fu un’arma politica potente e facile da usare (un caso molto significativo è in questo senso rappresentato dallo sviluppo di un movimento cattolico conservatore nella Spagna della Seconda Repubblica tra 1931 e 1936).

Quel meccanismo ha una nuova stagione potente tra 1941 e 1944 ovvero nella fase contrassegnata sul suolo d’Europa soprattutto dallo scontro a Est. In quel caso alla ripresa e alla diffusione del mito del bolscevismo giudaico non operano solo i vari corpi del nazismo che nel frattempo attivano la macchina dello sterminio antisemita, ma anche “volonterosi” corpi nazionali non tedeschi (rumeni, per esempio, ma anche ucraini, polacchi che nel periodo dell’occupazione sovietica tra settembre 1939 e giugno 1941 avevano collaborato con gli occupanti, A Jedwabne – uno dei quei luoghi già al centro di una ricostruzione da parte dello storico Jan T. Gross (I Carnefici della porta accanto) – scrive Hanebrink (p.145), “uccidere ebrei etichettati come bolscevichi era un modo che avevano le persone moralmente più elastiche per riscrivere la propria biografia”.

E durante la Seconda guerra mondiale tali paure contribuirono a seminare la morte, l’odio e l’orrore. E del resto per una parte consistente del clero cattolico – per esempio il cardinale Alfred Baudrillart, rettore dell’Istituto cattolico di Parigi, quei volontari che a Est sterminavano non erano che una nuova forma di “crociati del XX secolo” che sicuramente andavano sostenuti, appoggiati e ulteriormente motivati nella loro operazione di «riordino».

Processo che non finisce con ila fine della Seconda guerra mondiale, perché una parte significativa di quel linguaggio, la definizione di gran parte di quell’immaginario che ha prodotto la distruzione degli ebrei d’Europa (per riprendere l’espressione proposta da Raul Hilberg) si ripresenta sotto la veste del nuovo orgoglio nazionalista che attraversa l’esperienza del socialismo est-europeo in Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania,

Dopo l’Olocausto, quello spettro, lungi dal morire, semplicemente si modificò, diventando uno dei componenti della guerra fredda.

Ma anche di un vissuto che nel periodo del blocco comunista ha avuto una legittimazione dal potere.

Se all’inizio quel meccanismo antisemita non è forte, esso lo diventa a partire dalla fine degli anni ’40 e in ogni caso si hanno episodi in Europa orientale (in Polonia, per esempio il pogrom Kielce,il4luglio 1946, tanto per fare il nome di un luogo con cui fare i conti è stato sempre molto complicato, in Polonia, al netto delle motivazioni di autoassoluzione comprese le parole dette in quei giorni, e in cui di nuovo la colpa è riversata sugli ebrei oggetto del pogrom, dal Cardinal primate di Polonia Hlond).

Del resto per molti europei orientali l’occupazione sovietica era una indesiderata dominazione straniera, cui la presenza all’interno di alcuni ebrei nei partiti comunisti locali, rafforza quel sentimento di bolscevismo giudaico che ora assolve e giustifica il codice dell’antisemitismo persistente e precedente e che ora si rinnova sulla scorta di tre elementi:

1.       Le forze sovietiche erano una potenza straniera d’occupazione che le popolazioni locali percepiscono come ostile;

2.       Gli ebrei che negli anni dell’occupazione tedesca erano scomparsi, ritornano. Il fatto che nei loro confronti da parte del mondo ebraico occidentale si nuova una catena di solidarietà ne rende oltremodo precaria, incerta e suscettibile di nuove persecuzioni la loro presenza. Una significativa analisi delle persecuzioni e dell’antisemitismo tra 1945 e 1948 è ricostruita in questo libro.

3.       La nuova supremazia dei partiti comunisti, fino a quel momento attori totalmente marginali, rafforzati dal rientro di leader esuli, in parte ebrei, rafforza un sentimento diffuso.

 

Risultati di questo contesto è la ripresa nell’opinione popolare di antisemitismo che a partire già dalla fine del1946 è assunto dai livelli intermedi dei partiti comunisti (per esempio in Ungheria) per legittimare la loro posizione di potere, ma anche dimostrare di rappresentare i sentimenti popolari. È una dinamica che ogni volta che ci saranno malcontenti rappresenterà una delle modalità per riacquisire consenso interno. Accade così nel 1956. Accade nel 1968 in Polonia e in Ungheria, tornerà ad essere vera nella Polonia degli anni’80, ma anche in Romania. Soprattutto sarà vera a partire dalla fine del 1945 in Unione Sovietica.

Quel paradigma inaugura una nuova condizione di memoria di sé che si contrappone a quella dello sterminio ebraico.

“Il bisogno di ricordare l’Olocausto – scrive Hanebrink – veniva spesso giustapposto a un’altra forma di ricordo collettivo: la memoria nazionale. La diffusione della commemorazione dell’Olocausto in una regione appena liberatasi dal giogo sovietico ha acceso un’intensa competizione su cosa era necessario ricordare come nazione e come popolo e su chi aveva l’autorità per deciderlo. Alla fine del XX secolo, la possibilità di definire il ricordo che una nazione ha del proprio passato è diventata una questione di sovranità.” [p.268].

Questa dimensione di rivendicazione del  dolore e dell’oppressione sofferte come  nazione che verrebbero «oscurate »se si presta attenzione alla memoria dello sterminio ebraico ha non è un dato improvviso e ha una sua consistenza nell’ Europa dell’ex blocco sovietico  a tal punto da rimettere in discussione il modello culturale, o il paradigma con cui si è pensato di costruire l’impianto della memoria pubblica dell’Unione Europea quando è stato deciso la data del 27 gennaio come data di memoria per l’Europa ora da molti vissuto come” “memoria di parte” cui va contrapposta altra memoria dell’oppressione e poi della liberazione rappresentato dal totalitarismo comunista a Est. Un fenomeno che ha una storia nel difficile processo di costruzione di una memoria europea nel dopo guerra fredda.

Ma anche una dinamica che non riguarda solo le realtà di quell’area.

Se stiamo anche solo alla cronaca, si direbbe che anche in Italia, o almeno in una certa parte di territorio italiano, quella partita sia iniziata. “Di parte” è diventata una espressione probabilmente destinata a segnare il nuovo tempo (così come nel’68 fu per «ce n’est qu’un début, continuons le combat»).

E comunque per molti aspetti, è più che un inizio, ma l’ennesima punta di un serial. Le sue ombre lunghe partono dal Medio evo, si innervano nell’Europa della prima modernità e giungono a compimento negli anni a cavallo tra ‘800 e 900. Una indagine delle lunghe proiezioni che ha i tempi e i modi di una storia notturna come anni fa ha richiamato Carlo Ginzburg.  Una storia che si nutre di molti fantasmi e di molte figure della diffidenza verso la straniero e del timore della dissoluzione del proprio mondo come ha richiamato lo storico Christopher Browning.

Hanebrink, pur delineando una mappa di questo nostro tempo (e prevedibilmente di un tempo che ci accompagnerà per i prossimi anni), non ci fornisce lo scaffale archeologico e genealogico di un presente al passato. Un presente che, peraltro, non può tenere conto della macchina mitologica del complotto solo limitandosi all’Europa, ma deve scavare anche nella macchina mitologica del complotto giudaico anche nelle culture islamiche e nei paesi arabi, come ha indicato la ricerca sulla diffusione dei Protocolli dei Savi anziani di Sion proposta da Pierre André Taguieff anni fa.  Di quel presente al passato è bene che prendiamo correttamente le misure, perché non è destinato ad essere fugace o temporaneo.

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