Storia

Un’alba di 75 anni fa

6 Giugno 2019

Nella prima metà del giugno 2004 partecipai ad un Congresso scientifico a Missoula, nel Montana. Si trattava di un congresso importante per la mia disciplina, ed avevo avuto la fortuna e l’onore di essere stato selezionato per un breve intervento orale. Confesso, però, che più che il lato scientifico mi attraeva la possibilità di visitare il Montana, enorme stato americano al confine col Canada, noto per i suoi parchi nazionali (tra cui Yellowstone), scenari naturali da brivido e la presenza di una quantità imponente di orsi, in particolare grizzly. Arrivare nel Montana, anche in aereo, richiede un certo numero di fermate intermedie: se non ricordo male volai da Pisa a Parigi, da Parigi sino a Cincinnati, nell’Ohio; e poi da lì verso Salt Lake City (Utah) ed infine Missoula. Un viaggio decisamente lungo.

Sul volo intercontinentale per Cincinnati mi ritrovai seduto accanto ad un signore molto anziano che viaggiava insieme alla figlia. Inevitabilmente, quando si viaggia in aereo si osservano i propri compagni di viaggio che il destino, sotto forma di computer del check-in, ci ha fatto sedere vicino; si cerca di capire da dove vengono, cosa fanno. Qualche volta si inizia anche una conversazione, che finisce -in genere- per essere interessante. Questo vecchietto dai capelli bianchissimi e dagli occhi azzurro chiaro non guardava film, né leggeva qualcosa; fissava costantemente davanti a sé. Anche il pranzo sembrava non interessarlo. Però, le poche volte che piegava la testa per parlare con la figlia sembrava riscuotersi e sorrideva con tutto il volto. E poi aveva un cappellino da baseball con una scritta strana, sembrava avesse fatto parte di un gruppo che aveva ricevuto delle onorificenze a Parigi. Non capivo ed ero sempre più curioso; dall’accento era senz’altro americano, e pertanto non era un immigrato europeo che tornava a casa dopo una visita ai familiari nel Vecchio Continente. Che era venuto a fare quel signore in Europa? Che onorificenza aveva ricevuto? Mistero.

Si fanno anche altre cose, oltre che investigare i vicini, in aereo. Decisi di guardare un notiziario. E con mio stupore ad un certo punto apparvero su un palco George W Bush e Jacques Chirac a Parigi che celebravano, solennemente, i veterani dello sbarco in Normandia. Il D-Day, 6 Giugno 1944. Esattamente 60 anni prima. E dunque il signore anziano accanto a me era forse uno dei soldati che aveva guadagnato la spiaggia, sotto il fuoco dei tedeschi, nel caos di una delle mattine più importanti della Storia? Mi girai di scatto verso di lui che sorridendo indicava lo schermo alla figlia. “Eravate là” ho chiesto? Yes. “Siete sbarcato in Normandia?” Yes. “Dove?” Omaha beach.

Per me, che sono cresciuto col mito un po’ infantile degli yankees buoni venuti a salvarci dalle legioni del male, un mito alimentato dai racconti di mia madre nella cui casa i militari americani avevano stabilito nell’autunno del ’44 uno dei loro quartier generali intorno a Pisa, era una specie di sogno. Iniziai una conversazione.

Il vecchio soldato mi raccontò come quella mattina non fosse descrivibile, sebbene –a suo giudizio- Spielberg col suo film “Salvate il sodato Ryan” si fosse avvicinato alla realtà. Mi disse che era stato fortunato per essere sopravvissuto, che moltissimi del suo battaglione erano morti vicino a lui; che alla fine della guerra era poi tornato in America a vivere e lavorare vicino Indianapolis; che aveva dei figli meravigliosi; e che, malato da tempo di cancro, benediceva la vecchiaia che rallentava la progressione della malattia e gli aveva fatto conoscere i nipotini da cui stava tornando. Raccontava della guerra senza orgoglio, ma era contento della celebrazione e del fatto che ci fosse stato il Presidente del suo Paese.

L’operazione Neptune, nome in codice dello sbarco in Normandia, è stata probabilmente la più grande invasione anfibia della Storia. E oggi sono esattamente 75 anni che tanti ragazzi sono sbarcati su una linea di costa lunga quasi 100 Km per liberarci dal terrore e dalla tirannia. Quasi dodicimila sono morti sulle spiagge dai nomi in codice Utah, Omaha, Juno, Gold, Sword. Americani, inglesi, canadesi, ma anche francesi e polacchi. Di sicuro oggi ci saranno delle celebrazioni imponenti in Normandia e in molti altri Paesi. L’Europa libera e democratica è nata all’alba del 6 Giugno 1944.

Immagino che, a quindici anni di distanza, il mio personale eroe del D-Day con cui ho conversato in aereo, non sia più in vita. Spero se ne sia andato felice, godendosi il più possibile i suoi nipotini. Ho ripensato a lui quando qualche settimana fa ho letto della morte di Fleming Begaye, un nativo americano di etnia Navajo, anche lui oscuro eroe americano della seconda guerra mondiale. Fleming faceva parte dei “Navajo code talker” un gruppo di duecento poco conosciuti Navajo che parteciparono alla guerra come agenti di scambio di informazioni segrete nella loro lingua nativa. La lingua Navajo è difficilissima da imparare ed è non scritta; per questo motivo fu usata dagli americani come codice “orale” per scambiare informazioni che resistevano a tutti i tentativi di decrittazione. Secondo molti storici, lo scambio di informazioni in lingua Navajo è stato un fattore determinante per la vittoria navale ad Iwo Jima e in altri contesti. Fleming era nato in Arizona, lo stato dei Navajo per eccellenza. E anche lui aveva ricevuto, nel 2017, un’onorificenza dal Presidente americano, e ne era orgoglioso.

L’anziano soldato, verso la fine di quel viaggio in aereo, mi chiese dove ero diretto. Saputo del Montana, mi disse che era un paese bellissimo, ricco di scoiattoli, lepri, procioni, foreste. E che anche l’Indiana, quando lui era giovane, era così. Ne avrà parlato senz’altro ai suoi nipotini, ce li vedo a disegnare gli animali del nonno su qualche foglio, con le matite colorate. Per la cultura Navajo, la Natura è alimentata da Ni’hoosdzáán, la Madre Terra. Un loro canto dice: Ho i piedi coperti di polvere straniera, ma sopra di me non è straniero il cielo, e riconosco la lingua del vento. Questa notte il fumo del bivacco parlerà di me alla mia gente.

75 anni fa, all’alba. Grazie.

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