Geopolitica
Una cosa che Carlo d’Inghilterra dovrebbe fare: decolonizzare la monarchia
Si dice che i reali, ovunque, contino sempre meno. Che i loro titoli facciano parte di un tempo passato e che in fondo commentare gli abiti della riccanza sia un passatempo innocuo. Anche in Italia la morte della regina Elizabeth – qui diventata Elisabetta – è salutata come quella di un’adorabile nonnina che amava vestirsi in modo colorato.
Addirittura qualcuno la definisce un esempio di matriarcato, altri ancora un’icona lgbt+, semplicemente per aver aver approvato norme di buon senso come il matrimonio egualitario. Si dimentica però che diversi tra i paesi in cui nel 2022 l’omosessualità è ancora un reato sono o sono stati soggetti al dominio coloniale britannico e che fu questo a imporre leggi contro l’uguaglianza in seguito mai abrogate. Il lungo silenzio di Elisabetta su questa e altre faccenda – vita quotidiana per molti – dovrebbe invece risultare eloquente. Per la maggior parte delle persone lei rimane comunque, come ha scritto Adrian Higgins sul Washington Post “una figura costante e rassicurante in Gran Bretagna e sulla scena mondiale”, fondamentale in “un periodo di profondi cambiamenti nel potere geopolitico e nell’identità nazionale”.
Quando Elisabetta salì al trono l’impero era vasto più o meno quanto la sua influenza, mentre il figlio Charles (che in Italia diventa Carlo) si trova ad esercitare un potere molto più contenuto, complice anche l’esito di Brexit. Carlo si è preparato tutta la vita per affrontare il prestigioso incarico, ma una lettura che gli farebbe bene è quella dei giornali di oggi, nelle pagine che parlano della sua dinastia. Quando il momento che lui vive ora toccò alla madre, infatti, le colonie britanniche comprendevano Hong Kong, India e Giamaica ed è interessante dare uno sguardo a ciò che le testate e i social network di quei paesi scrivono in queste ore, così come quelli irlandesi. Sarebbe già qualcosa essere un po’ più coerenti di Bono Vox, che prima canta Sunday Bloody Sunday con gli U2, ossia un inno contro la repressione di una manifestazione a Derry nel 1972 (14 morti e molti feriti per il fuoco aperto dall’esercito inglese) e poi nel 2006 accetta da Sua Maestà il titolo di baronetto.
Un’esperta di storia dell’impero britannico, Maya Jasanoff, docente all’Università di Harvard, ha scritto ieri per il New York Times un pezzo d’opinione in cui invita a non romanticizzare l’epoca della regina. Nell’articolo viene ricordato un passaggio del discorso che nel 1947 Elisabetta II tenne in Sudafrica, quando durante un tour reale utilizzò le parole che il figlio Carlo ha in parte ripreso nel suo primo messaggio da re: “Tutta la mia vita, lunga o breve che sia, sarà dedicata a servire voi e a servire la nostra grande famiglia imperiale a cui tutti noi apparteniamo“. A ciò che Jasanoff scrive quando in Europa è mattina si possono quindi aggiungere che le parole dette dall’adulto Carlo qualche ora più tardi, nel 2022, sono ancora più gravi di quelle pronunciate dalla madre appena ventunenne. Servire? In che senso? Sarebbe lui a servire l’impero, o ciò che ne resta?
La docente invita inoltre a guardare le fotografie che raccontano i viaggi di Elisabetta, ad esempio quelle con i leader del Commonwealth: “la regina bianca siede davanti e al centro tra decine di premier per lo più non bianchi, come una matriarca affiancata dalla sua prole”.
Molte immagini a ben guardare rivelano razzismo, classismo e paternalismo, perpetrando una violenza che andrebbe condannata. Jasanoff ricorda la repressione britannica in Malesia, in Kenya, le torture consumate a Cipro e nello Yemen, i documenti distrutti dai funzionari coloniali per fare in modo che la regina non venisse a conoscenza dei crimini o piuttosto che non venisse accusata di esserne al corrente, fino a quando un archivio segreto fu scoperto nel 2011.
Il pezzo pubblicato dal Times fa capire inoltre il motivo per cui una stagione coloniale produce effetti che perdurano nel tempo presente. Due esempi: le tecniche di repressione utilizzate dai militari britannici sono state poi ‘copiate’ da quelli statunitensi, mentre le invasioni di Afghanistan e Iraq volute da Tony Blair si sono realizzate facilmente grazie alla retorica imperialista ormai consolidata in patria. E meno di un anno fa anche una conduttrice radiotelevisiva italiana – Diletta Leotta – ha pensato bene di replicare quell’andazzo per festeggiare il il proprio compleanno (non l’ottavo, il trentesimo).
Per quanto il cambiamento nel Regno Unito sia in atto – riforma dei programmi scolastici, rimozione di monumenti pubblici dedicati ai criminali dell’età imperiale, restituzione di opere d’arte saccheggiate etc – il razzismo nel nel paese post-Brexit è in aumento. E secondo quanto sostengono Harry e Meghan – di cui non ha caso re Carlo ha detto “spero che continuino a costruire la loro vita oltreoceano” – una dose di xenofobia è ben presente anche nella casa reale.
Per quanto non sieda in parlamento, Carlo d’Inghilterra avrà molto di cui occuparsi. Alcuni sostengono che la morte della madre farà riprendere la campagna per l’indipendenza della Scozia, e anche quella per abolire la monarchia sembra essere in ripresa. Cosa può fare dunque Carlo? Maya Jasonoff lo suggerisce quando scrive “L’Impero britannico si è in gran parte decolonizzato, ma la monarchia no”. Sarebbe importante che il nuovo re ne prendesse coscienza e manifestasse pubblicamente la volontà di impegnarsi in proposito.
Analogamente potrebbero fare tanti altri cittadini bianchi che stanno salutando la regina con le lacrime agli occhi, omettendo una parte della Storia. Dovrebbe farlo soprattutto la stampa occidentale, che vanta spesso un pluralismo dei media di fatto non garantito. Oggi, ad esempio, non sarebbe stata una cattiva idea riprendere un estratto del pezzo uscito sul Times e qui citato, decisamente più autorevole di molti altri che sono evidentemente scritti per far girare il traffico web. Certo, non è facile come stare sul divano a vedere The Crown.
Devi fare login per commentare
Login