Geopolitica

Una conversazione sulla Danimarca (presente e passata) con Knud J.V. Jespersen

3 Gennaio 2017

Knud J.V. Jespersen è uno dei più importanti, e ascoltati, storici danesi. Docente emerito di storia moderna presso l’Università della Danimarca meridionale (SDU), storiografo reale della regina di Danimarca, Jespersen è stato visiting fellow all’università di Cambridge e visiting professor a quella di Yale. Ed è autore di una delle più lette introduzioni alla storia danese, «A history of Denmark» (Palgrave Macmillan).

Ad agosto lo abbiamo intervistato, per capire meglio la situazione di uno stato, la Danimarca (o meglio: il Regno di Danimarca), che agli occhi degli italiani può sembrare una periferia del Vecchio Continente, ma che in realtà è un attore di primissimo piano in due delle regioni più strategiche del mondo: quella baltica e quella artica. Infatti mentre il Mar Baltico (lo scrivevamo in un precedente post) è il nuovo crocevia energetico d’Europa, e uno spazio commerciale rilevantissimo, l’Artico è destinato a giocare un ruolo sempre più importante nel XXI secolo, sia a causa delle sue immense risorse naturali, sia come spazio commerciale e militare.

Il Regno di Danimarca gioca entrambe le partite. Da sempre il Baltico è un po’ un suo lago, e sino alla prima metà del XIX secolo le navi che passavano per l’Øresund dovevano pagare gli odiati Øresundstolden, dazi vitali per l’erario danese; oggi il Copenhagen Malmö Port è uno dei maggiori del Baltico (nonchè il principale della Scandinavia), e l’armatore Maersk, ossia il più grande gruppo di shipping d’Europa, è di casa nelle acque poco salate di quel mare.

Per quanto concerne l’Artico, la rilevanza del Regno di Danimarca è evidente. Oltre a essere uno dei membri del Consiglio Artico, e a partecipare a quasi tutte le iniziative legate all’Artico (citiamo, per esempio, la Arctic Ocean Conference di Ilulissat del 2008), Copenaghen continua a rappresentare la Groenlandia a livello internazionale, ed è competente in temi militari e di sicurezza.

Ecco perchè è importante capire cosa succede in Danimarca, specie a livello politico e sociale. Per molti anni uno dei bastioni della socialdemocrazia nordeuropea, oggi il paese sta subendo una profonda trasformazione. Al governo c’è una coalizione di centrodestra guidata dal primo ministro Lars Løkke Rasmussen, leader del partito liberale Venstre. I Socialdemocratici (Socialdemokraterne) sono ancora il primo partito, e sotto la leadership della trentanovenne Mette Frederiksen sembrano essere in ripresa, ma al secondo posto c’è una formazione di destra, aggressiva e molto ostile all’immigrazione, il Dansk Folkeparti. Un cambiamento non indifferente, in un paese per decenni sinonimo di stabilità e progressismo.

 

Professore, partiamo da una domanda assai generica: com’è cambiata la politica danese in questi anni? Il dibattito danese sull’immigrazione, per esempio, è abbastanza aspro, anche per gli standard italiani.

Uno dei cambiamenti più significativi nella politica danese recente è che i partiti politici tradizionali stanno subendo un erosione del loro elettorato, a causa dei mutamenti sociali tipici di una società post-industriale. Ciò indebolisce la loro forza e mina la loro legittimità, lasciando così spazio a nuove ideologie e formazioni politiche focalizzate su un’unica tematica (è il caso del Dansk Folkeparti). Questa evoluzione costringe i partiti tradizionali a modellare la loro agenda non sulla base di interessi di classe o ideologie in senso classico, ma piuttosto su fenomeni emergenti come la crisi finanziaria o i temi collegati all’immigrazione.

Al contempo, l’autorità del sistema politico nazionale è stata indebolita da un lato da una crescente pressione per implementare sempre più norme dell’Unione Europea, e dall’altro da un’impennata delle richieste di autodeterminazione locale. Entrambi i fattori contribuiscono a diminuire il rispetto della popolazione per l’establishment politico, che anche qui è costretto a mostrarsi energico e a reagire con determinazione alle singole questioni, spesso lontane dal proprio contesto ideologico.

 

Per lei un momento spartiacque è stata la famigerata crisi delle vignette su Maometto del 2006

La crisi delle vignette, con le sue implicazioni, fu percepita come rivelatrice da molti danesi, e ancora oggi sta per molti versi determinando la sostanza e il tono generale del dibattito pubblico danese sull’immigrazione dal Medio Oriente. Per molti danesi, infatti, questa crisi fu la prova del fatto che l’Islam radicale è il vero nemico, e che il suo obiettivo è destabilizzare la società danese dall’interno. Al contempo molti giunsero alla conclusione di non doversi aspettare chissà quale aiuto dai nostri alleati.

Ecco, questa potrebbe essere una possibile spiegazione del tono particolare del dibattito danese sull’immigrazione. Che magari può risultare stupefacente per un italiano, ma che può essere spiegato, almeno parzialmente, con l’esperienza di essere stati lasciati soli in quel momento decisivo del 2006. Sa, io non trovo i danesi più xenofobi di altri popoli, ma da allora la retorica spesso aspra del dibattito si è accentuata.

 

Parliamo del welfare state, così connaturato all’identità danese moderna. Alcuni anni fa Donald Sassoon ha scritto: «No one can be sure that a distinct brand of European social democracy will survive in the future except perhaps as isolated local forms in a handful of small European countries». La Danimarca potrebbe diventare uan sorta di «oasi del welfare state» in un continente sempre più liberista?

Onestamente dubito fortemente che il welfare state danese sarà in grado di sovravvivere nella sua forma attuale. Per come la vedo io, il welfare state è un fenomeno strettamente collegato ai tempi di prosperità. Dopo la crisi finanziaria sembra che una generale riduzione della previdenza sociale e dei servizi  sia inevitabile; servizi e sussidi un tempo «gratuiti» potrebbero essere gradualmente sostituiti da qualche tipo di sistema assicurativo. Da ciò potrebbe derivare una graduale ridefinizione anche del concetto di «danesità»; a riguardo, una recente iniziativa del Ministero della cultura per discutere uno specifico canone culturale danese è forse un segno del vento che sta cambiando.

Ancora, ritengo sia utopico pensare che la Danimarca possa continuare a esistere come una specie di isolata «oasi del welfare state» in un’Europa neoliberista. Guardiamo al destino di altre «oasi» come l’ex DDR, l’Albania oppure la Corea del Nord! Storicamente la Danimarca ha sempre seguito i trend europei generali, sebbene spesso con un ritardo di circa 20 anni.

 

I danesi amano considerarsi come una specie di tribù. È in corso, a seguito di fenomeni come la crisi economica, la globalizzazione, il crescente peso normativo della UE o la questione dei migranti una sorta di re-tribalizzazione della società danese?

Il concetto della Danimarca come tribù non deve essere esagerato. Questo concetto è prima di tutto, e soprattutto, collegato all’originaria omogeneità ed esiguità della popolazione danese, ma dal punto di vista storico i danesi sono sempre stati pronti a cambiare e ad aprisi al mondo. Quindi penso sia sbagliato pensare in termini di una sorta di ri-tribalizzazione. L’odierno scetticismo verso l’Unione Europea e la crescente immigrazione, che innegabilmente esiste in certi strati della popolazione, è causato più che altro dal timore di ciò che troppi immigrati potrebbero fare ai diritti economici e sociali guadagnati con tanta fatica, e dall’influenza che una manodopera a basso costo dall’Europa orientale potrebbe esercitare sui livelli di reddito nel lungo termine (si confronti questo con il recente dibattito nel Regno Unito sulla Brexit).

 

Mi rendo conto che questa domanda non è molto ortodossa, ma nel corso dei miei viaggi nel suo paese ho avuto la sensazione di una società sempre più consumista e materialista, almeno nei grandi centri urbani. Ovviamente questo fenomeno non riguarda solo la Danimarca, ma anche realtà come l’Italia o la Spagna, però penso che potrebbe minare la coesione sociale e il welfare state tipici della Danimarca.

È perfettamente vero che la società danese, come molte altre società europee, stia diventando più consumista e materialista del passato, e una delle conseguenze è la crescente diseguaglianza. Non si tratta però di un fenomeno nuovo, è in corso dagli anni ’60. D’altra parte, il welfare state ha negli anni saputo assicurare una qualche forma di livellamento.

Finché i danesi continueranno ad accettare di vivere sotto una delle pressioni fiscali più alte del mondo e a fidarsi del welfare state e della sua capacità di provvedere quando necessario, non credo ci sarà un serio conflitto tra un maggior materialismo e il welfare state. Al momento, comunque, sia la fiducia generale nel welfare state sia l’accettazione di un’alta tassazione stanno scemando.

 

Da un punto di vista storico, ha dello stupefacente come una società molto polarizzata e militarizzata come quella danese nel XVII secolo (e anche nel secolo successivo) sia riuscita, dopo la sconfitta del 1864 [quando la Danimarca perse i ricchi e popolosi ducati dello Schleswig, dell’Holstein e del Lauenburg], a trasformarsi in una nazione molto pacifica, egualitaria e orientata alla cooperazione internazionale. La Longue durée agisce in modi sorprendenti, a volte…

La sconfitta del 1864 fu un evento decisivo della storia danese. In realtà, costituì una sorta di anno zero, in cui una nazione ormai molto piccola come la Danimarca dovette reinventarsi. La sconfitta fu seguita da una profonda crisi politica e mentale, lunga 40 anni, che gradualmente trasformò la Danimarca in un paese che si auto-percepiva come minuscolo, insignificante e pacifico, concentrato su stesso, e che considerava essenziale alla sua sopravvivenza agire nel modo più dimesso possibile. Un po’ quello che è ancora oggi.

La storiografica post-bellica fece scivolare il passato imperiale e marziale danese nell’oblio, e per molti anni essa non fu altro che una lunga lezione sui disastri verificatisi ogniqualvolta la Danimarca aveva tentato di strafare. Le parole-chiave erano “piccolo è bello”, il convincimento diffuso era che le guerre e i conflitti non facessero parte della natura dei danesi. Questo autoritratto, ovviamente, era il risultato della repressione mentale causata dalla traumatica esperienza del 1864. La dice lunga (anche come indizio di un cambiamento dello spirito dei tempi) il fatto che solo nel 2008 un gruppo di storici di rilievo ha osato pubblicare un’opera in due volumi sulla storia bellica danese con un focus sulle guerre danesi nella storia, descrivendo apertamente la Danimarca come lo stato bellicoso e aggressivo che fu per secoli prima del 1864.

 

È ironico tutto ciò, specie considerando che all’inizio del XVI secolo la Danimarca-Norvegia era un impero (in senso pre-moderno) che controllava vasti tratti di Nord Europa.

In parte credo di averle già risposto. In effetti, è alquanto paradossale che il re danese più popolare sia ancora Cristiano IV. In realtà, egli fu il re che portò avanti tre guerre più o meno di insuccesso, che nel complesso ridussero la Danimarca a uno stato di seconda categoria. Eppure, a dispetto dei suoi palesi fiaschi, Cristiano IV è ancora oggi visto come una figura eroica, che volle sempre il meglio per il suo paese, ma che ebbe contro un destino avverso.

Questa prolungata fascinazione per un personaggio del nostro passato imperiale potrebbe suggerire che qualche aspirazione di grandezza covi ancora sotto la mentalità post-1864 da piccolo stato. Questi sogni segreti potrebbero anche spiegare le nostre partecipazioni alle operazioni in Iraq, Afghanistan, Libia e Siria; partecipazioni che a livello teorico sarebbero al di là di ciò che un piccolo paese come la Danimarca può affrontare.

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