Storia
Un terzo di Carlo
Chissà se diventare re a settantacinque anni sia un tantino seccante, nel dubbio però, se aggiungiamo all’evento due defunte che son rispettivamente una moglie e una madre che ballano come scheletri nell’armadio globale dell’immaginario collettivo, allora la cosa si fa complicata.
Eh sì perché a questo re non è toccata soltanto la sorte di vivere settanta dei suoi settantacinque anni all’ombra di una madre regina, ma di passarne altri trentacinque con lo spettro di una moglie trapassata ma più viva che mai nel pubblico pop che siamo noi che guardiamo incoranare il nuovo re.
E tra una royal queen Elizabeth alla quale si accosta la queen of hearts Diana, spunta la regina consorte Camilla.
Un re con tre regine che arriva alla meta con la saggezza ma pure la stanchezza degli anni e sul quale piovono meme e immagini alla midjourney ad arredare una solennità ormai impossibile nella cornice impazzita dei social.
Nella fiaba necessaria che richiedono un re e il suo castello ci devono essere la strega, la principessa, la matrigna e gli intrighi di corte.
E parrebbe non mancare nessun elemento a questa narrazione infinita almeno fino a ieri, quando l’archetipo della principessa triste e tradita sembra definitivamente tramontato davanti a una mesta quanto necessaria ricomposizione.
Fu l’intervista del 95 alla BBC, dove Diana ruppe il silenzio e raccontò di un matrimonio in cui “eravamo in tre” condito da tribolazioni e bulimia a fare da trampolino a una narrazione in cui tante donne di fine millenio si rispecchiarono, rinunciando una volta per tutte alla favola, questa sì, del principe azzurro.
E i media ebbero gioco facile nel contrapporre l’immagine di una Diana bellissima e in fuga a quella di una paludata e goffa Camilla sigillata anche da un nomignolo “rotweiller” affibiatole forse dalla principessa a causa del “viso rugoso e l’ampia mascella”.
Parrebbe che più della relazione parallela del marito in questa storia abbia pesato l’immagine non esattamente cool di Camilla, una donna incurante dell’idea dei media e per questo lontanissima dalle copertine di Vanity Fair come dagli abiti di Gianni Versace.
L’idea di emancipazione glamour con cui soltanto tre anni dopo una serie come sex and the city avrebbe quasi plagiato un’intera generazione di donne, trovava nell’eco della principessa un’eroina sfrontata e libera da contrapporre a una bruttina stagionata che alle scarpe preferiva i cavalli.
Una storia se non di bullismo almeno di bodyshaming, mal gestita da un’alleanza sospetta tra l’immagine che i media propagavano delle due e il bottino triste che un pubblico ne faceva in termini di frustrazione, poiché pur tifando per Diana restavano più tinelli che yachts e più sabati sera alla Maria De Fillippi che alla Maria Stuarda.
Tutto sommato aver rinunciato al principe azzurro non ci ha trasformato in principesse guerriere, quindi mettiamoci una pietra sopra, e dio salvi noi e la regina.
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