Storia
Un museo non è un sacrario, ed è per questo che un museo del fascismo ci serve
Stamani, a Prima pagina, un ascoltatore (Egidio da Torino, se ho sentito bene, lo si può sentire qui al tempo 01.00.00) è intervenuto e ha detto di essere scettico sulla possibilità di fare un museo del fascismo. Scettico perché a suo parere quel museo sarebbe inutile quel museo sarebbe inutile perché la discussione non è sul contenuto, ma solo sul desiderio da parte di ciascuna voce in discussione di avere un prodotto che dia ragione alle proprie convinzioni originarie. E dunque chi rimane di simpatie fasciste vuole un museo che parli delle cose buone che ha fatto il fascismo, chi ha sentimenti antifascisti, all’opposto, ritiene che centrale sarebbe un museo che racconto l’Italia del disastro.
Personalmente non sono d’accordo con la tesi dell’inutilità, ma ho trovato questa voce illuminante di una condizione culturale in cui siamo immersi.
Abbiamo bisogno di un museo del fascismo? Penso di sì. Ma anche penso che non abbiamo una cultura professionale per discutere come si fa un museo di storia. Non dico che manchino gli storici. Anzi di quelli ce n’è in abbondanza, né dico che manchino i competenti professionali che si occupano di musei. Ma un museo di storia, almeno nel nostro paese, non riesce a trovare la strada per non essere inteso se non come un luogo della celebrazione, più che un luogo della riflessione o della capacità di costruire riflessione. E questo è un problema, prima ancora che del pubblico che ne fruirebbe, dei professionali che evidentemente non riusciamo (uso il noi perché nel momento in cui ritengo di appartenere a una delle categorie in questione mi sembra essenziale non tirarmi fuori dalla categoria) a definire un profilo di percorso, di esposizione, di narrazione in grado di offrire dei punti di riflessione.
Individuo tre ordini di problemi che fanno di un museo un luogo della formazione culturale e della informazione documentata.
Il primo ordine di problemi è che una costruzione di un museo non è uguale a una mostra (celebrativa o critica) e dunque non ha una tesi a priori da dimostrare, ma deve essere definito in modo da indicare e suscitare domande e questioni.
Non sostengo che quel museo deve essere neutro. Sostengo che deve mettere il visitatore, anche adottando linguaggi adatti a fasce di età diverse, di farsi delle domande. Provo a proporre un’ipotesi: l’ingresso al museo parte da una immagine che racconta il fine pedagogico e didattico di quel percorso museale Nel caso del fascismo potrebbe essere l’idea di totalitarismo Come lo si definisce? Quali aspetti o quali questioni richiamano il concetto di totalitarismo? Che cosa e come si struttura, agisce, pensa, chiede che si pensi un sistema totalitario?
Il secondo ordine di problemi riguarda quali fonti si scelgono per raccontare una storia e se si fa in modo che un visitatore non solo fruisca di quelle fonti, ma anche si faccia un’idea del perché gli viene proposta quella fonte piuttosto che una parola.
Il terzo ordine di problemi è dato dall’arco cronologico che si propone. Ovvero se con fascismo intendiamo la crisi dello Stato liberale, la definizione di un linguaggio, la costruzione di un movimento, la definizione di un regime, il suo crollo e dunque fissiamo quel tempo lungo un arco temporale più o meno solido (1914- 1945) oppure 1919-1945, o, invece non pensiamo che quel museo sia in realtà un’occasione per pensare più in una dimensione di “lunga durata” e dunque non mettiamo in partita non gli eventi, ma le mentalità e, appunto la storia del processo di nazionalizzazione degli italiani che dunque include altri fenomeni e altri percorsi anche temporalmente diversi che hanno un’influenza sul nostro oggi di ora. O, più precismente,ancora oggi.
Qui capisco che quest’ultima cosa può apparire un’incursione interpretativa a chi sostiene il ritorno del fascismo”, tesi fortemente respinta da chi pena che il fascismo sia un’esperienza storica che ha un inizio e una fine e che non si ripete. Ma non m i sembra di aver né letto opinioni, né ascoltato voci o pareri che siano capaci di andare oltre una dimensione di soddisfazione di sé.
Capisco la partita altamente da stadio: in fondo l’impressione è quella di duplicare il “sacrario di Predappio” comprensivo di tutta la gadgettistica e l’iconografia che lo circonda. Quello sì un luna park della storia, se non più propriamente un luogo di culto dell’identità.
Ma provo a dirla diversamente così forse, se non fugo i dubbi o le perplessità, magari si apre un campo di riflessione diverso.
Nella lunga storia dell’Italia repubblicana la questione della continuità e della discontinuità del fascismo nell’Italia democratica è stata spesso intesa come mantenimento delle strutture e delle persone (magistratura, polizia, prefetti, apparati insomma). Continuità è solo questo o anche altro?
E se è altro non conviene avere appunto del fascismo un’informazione che non ci racconti solo i fatti ma anche cosa ì successo nella mentalità dei nostri nonni e quanto di quella mentalità (intatto, modificato, rivisto, oppure inconsapevole, …) si è conservato in noi, ora? E andando alle origini: come si è costruito? Definito? Attraverso quale idea di identità e di politica si è dato?
Non sarebbe questo appunto non un museo/mostra, ma un museo laboratorio dove la storia parla a noi e anche chiede di parlare di noi? Diversamente: un luogo in cui periodicamente tornare per fare il bilancio di sé e non solo un luogo per mettere in sicurezza le nostre certezze?
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