Storia

Un manuale di geopolitica in un saggio sulla II guerra mondiale

20 Dicembre 2021

Per spiegare la grammatica e la sintassi del secondo conflitto mondiale Ernest Mandel “smonta” il fenomeno bellico nelle sue componenti, materiali e non, un metodo scientifico valido anche per tentare di capire le odierne tensioni globali e la guerra del futuro.  

Perché pubblicare oggi un libro di Ernest Mandel, militante e intellettuale marxista, morto a metà degli anni ’90, sulla Seconda guerra mondiale? Ovvero perché qualcuno dovrebbe prendersi la briga di leggerlo? È quanto ci siamo chiesti prima della pandemia, quando abbiamo deciso di rendere accessibile anche al pubblico italiano un’opera di recente tradotta in francese, tedesco, inglese e spagnolo: Il significato della Seconda guerra mondiale.

Uno dei motivi è che si tratta di un saggio scritto in un momento di snodo della storia contemporanea, nel 1986, a metà circa dell’ottantennio che ci separa da quel conflitto che ha segnato la seconda metà del XX secolo e in qualche misura condiziona ancora il mondo odierno. Lo condiziona ancora non solo perché ha inaugurato un lungo periodo di egemonia americana, che solo in anni relativamente recenti, con la rapida ascesa economica del rivale cinese, ha cominciato a manifestare in modo esplicito i primi sintomi di una crisi profonda e, forse, irreversibile. Si pensi, ad esempio, a come negli ultimi vent’anni i governi giapponesi abbiano faticato per fronteggiare la reazione sociale ai loro tentativi di superare la “Costituzione pacifista” e inviare nuovamente soldati all’estero. Oppure a come l’altra grande sconfitta di quel conflitto, la Germania, oggi viva la contraddizione di essere la locomotiva economica di un’Europa in cui però è la Francia, tanto più dopo la Brexit, la potenza militare dominante (e l’unica dotata di armi nucleari).

Non è un caso, forse, che la più ampia riflessione di Mandel sulla Seconda guerra mondiale si sia condensata in una lunga monografia proprio nel momento in cui la Guerra Fredda volgeva al termine lasciando intravvedere la possibilità di un periodo di benessere generalizzato e di pace perpetua, almeno così la celebrò il liberalismo occidentale, tirando un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, di fronte al crollo di un mondo che in molti avevano considerato una minaccia alla definitiva affermazione delle democrazie liberali e di cui, invece Mandel, marxista, fu nondimeno un implacabile critico (ma non un aspirante liquidatore). Quasi quarant’anni dopo il ritiro americano dall’Afghanistan chiude un ciclo trentennale di interventi armati “umanitari” in Medio Oriente, iniziato nello stesso anno del collasso dell’URSS con la Prima Guerra del Golfo e ricolloca il fulcro della politica estera americana sul Pacifico, in direzione dell’ascendente potenza cinese, una scelta che dal 2012, quando Obama la annunciò definendosi il “primo presidente del Pacifico”, è stata perseguita con coerenza da tutte le amministrazioni USA.

La pandemia ha confermato, su un altro piano, che il pericolo viene da Oriente, non tanto perché da lì, banalmente, proviene la fonte del contagio, quanto perché il Covid-19, almeno fino a questo momento, ha dimostrato che il modello capitalistico di paesi come Cina, Giappone, Corea del sud, Taiwan, caratterizzato, sia pur in misura diversa, dal protagonismo degli Stati, è in grado di reagire più rapidamente e in modo più efficace alle emergenze rispetto a quelli che invece, sul terreno della politica sanitaria così come in economia, hanno deciso di affidare in modo più o meno esplicito le sorti proprie e dei propri cittadini alla “mano invisibile” del mercato: Stati Uniti ed Europa, in primis, ma anche Brasile e India.

Giustamente ricorda Pietro Acquilino nella sua introduzione al volume che

Mentre focolai di guerra si accendono incessantemente in tutti i punti caldi del globo, Stati Uniti, Russia e Cina lavorano alacremente a nuove generazioni di armi per poter sostenere un prossimo conflitto mondiale. Hu Xijin, direttore del tabloid in lingua inglese del Partito Comunista Cinese Global Times, scriveva con tipica flemma orientale l’11 settembre 2020: «la società cinese deve manifestare in modo concreto l’ardire di impegnarsi con serenità in una guerra per proteggere i suoi interessi fondamentali e di essere pronta a sopportarne i costi». Sul fronte opposto l’ammiraglio americano James Stavridis, ex comandante supremo delle Forze NATO e del Comando USA in Europa, nel marzo 2021, alla domanda di un intervistatore: “Ammiraglio, nel suo ultimo libro prevede una nuova guerra mondiale con la Cina entro il 2034. È davvero uno scenario credibile?” rispondeva con franchezza yankee: «Purtroppo sì, da qui a 15 anni. Cina e USA sono su fronti opposti su tanti temi cruciali e le distanze resteranno tali, dallo status di Taiwan alle navi nel Mar Cinese Meridionale, dalla guerra cyber a quella dei dazi fino alle violazioni dei diritti umani. Continueranno ad aumentare le proprie capacità militari e potrebbero giungere a un punto di non ritorno.»

Per questa ragione

Porre il problema della guerra oggi non è un mero esercizio storiografico. La caduta del muro di Berlino che nel 1989 ha concluso il “secolo breve” (Eric J. Hobsbawm), mettendo così fine alla “guerra fredda”, non ha inaugurato un’era di pace sotto l’egida dell’impero statunitense. Anzi, il dissolvimento del blocco sovietico, il lento ma inarrestabile declino degli USA (di cui le recenti vicende afghane sono un riflesso emblematico) e, soprattutto, la spettacolare ascesa dei giganti asiatici, con in testa l’imperialismo cinese, hanno aperto un secolo che non sappiamo se sarà anch’esso breve, ma possiamo già dire che sarà agitato.

Dal suo punto di osservazione a metà strada tra lo scoppio del conflitto e oggi, cioè appunto negli ultimi anni del “secolo breve”, Mandel sembra godere di una visione strategica che gli consente di analizzare con particolare efficacia il significato della Seconda guerra mondiale prima ancora che i suoi eventi, di coglierne l’impatto sul dopoguerra, ma anche di intuire la fragilità delle tesi che cominciavano a suggerire che i “grandi cataclismi” con cui Hobsbawm aveva caratterizzato il periodo 1914-1991 fossero ormai il lontano ricordo di un’epoca tramontata. Nell’Epilogo egli osserva che se “la Seconda guerra mondiale non ha risolto nessuno dei problemi strutturali del capitalismo”, altrettanto vale per il dopoguerra, perché è vero che i vent’anni di rapido sviluppo tra il1948 e il 1968 hanno rafforzato il capitalismo, “ma al prezzo di crisi continue nel Terzo Mondo e dell’accumulo di materiale sempre più esplosivo in Europa occidentale, che sarebbe scoppiato nel 1968”. Insomma “la tregua non era servita per riparare la diga” e, anzi, “le crepe si stavano allargando. Attraverso di esse il fiume della rivoluzione avrebbe ricominciato a scorrere. Essa è ancora la migliore speranza, in effetti l’unica speranza, per evitare la Terza guerra mondiale. Il genere umano può essere salvato dalla distruzione soltanto stabilendo un controllo razionale sulle questioni internazionali e interne, cioè abolendo i conflitti di classe e tra nazioni, e la concorrenza”.

È il metodo utilizzato per analizzare ragioni ed eventi della Seconda guerra mondiali che permette a Mandel, nel momento in cui lo sgretolamento del mondo diviso in blocchi è già iniziato, di scavalcare idealmente l’ultimo ventennio del ‘900 ed evocare addirittura lo spettro di una Terza guerra mondiale. Per Mandel la Seconda guerra mondiale è innanzitutto un fenomeno globale, non solo perché il campo di battaglia abbraccia l’intero pianeta, ma perché la logica che muove i diversi capitalismi nazionali spingendoli a entrarvi è la stessa e c’è un nesso funzionale tra le azioni e le reazioni di cui essi sono protagonisti. Oggi l’esperienza ci conferma che persino l’ultimo conflitto tribale nel cuore dell’Africa è permeato da quella logica. Ma oltre a superare la narrazione della Seconda guerra mondiale come un conflitto essenzialmente europeo, Mandel respinge la narrazione corrente che essa sia stata il mero effetto di un imbarbarimento sociale culminato nell’ascesa di figure come Hitler e Mussolini, insomma uno scontro tra civiltà e barbarie, democrazia e totalitarismo.

Per Mandel, militante e poliedrico intellettuale marxista, noto per aver sviluppato la teoria economica delle onde lunghe di Kondratiev, ma anche storico e autore persino di una storia sociale del romanzo poliziesco, la politica aggressiva della Germania e dell’Italia non nasce dalla “volontà di potenza” dei suoi leader, ma dalla pressione materiale di due capitalismi in rapido sviluppo posti a un bivio: o smettere di crescere oppure liberarsi delle pastoie di uno sviluppo economico soffocato dai confini nazionali, che avrebbe impedito loro di accedere a risorse, mercati e vie commerciali fondamentali. Hitler e Mussolini, insomma, sono gli “autori materiali” delle scelte che portano allo scoppio del conflitto, ma, quel che più conta, le figure che il capitalismo tedesco e quello italiano selezionano come i leader che meglio incarnano le proprie esigenze materiali in quella fase storica: alimentare la crescita delle proprie economie e della ricchezza privata a spese dei lavoratori tedeschi e italiani e sfruttare il potenziale accumulato per allargare la propria sfera d’influenza economica, politica e militare entrando inevitabilmente in rotta di collisione rispettivamente con Francia e Gran Bretagna, Unione Sovietica e Stati Uniti.

In Giappone a fare scelte analoghe è una leadership più collettiva, a capo di una società molto diversa, in piena occidentalizzazione ma lacerata dal conflitto tra tradizione e modernità e tuttavia spinta verso il baratro dalle stesse ragioni: senza le risorse naturali della Manciuria e una presenza militare in Cina, necessaria per un verso ad arginare le ambizioni coreane e russe e per un altro a cercare di assicurarsi il controllo di vie commerciali fondamentali, come la Via birmana, e il dominio dei mari, lo sviluppo capitalistico dell’impero giapponese è destinato a rallentare e il paese da potenziale cacciatore rischia di trasformarsi in preda.

Oltreoceano gli Stati Uniti vedono nella travolgente avanzata nazista in Europa, nella sconfitta della Francia e soprattutto nella crisi dell’Impero britannico l’occasione per fare un balzo in avanti, sfruttando la propria capacità di mobilitare su scala mai sperimentata risorse umane e materiali, anch’esse ormai soffocate nella gabbia dei confini nazionali. Il coinvolgimento dell’URSS dopo l’aggressione tedesca e la successiva entrata in guerra degli USA determinano il perimetro delle alleanze in base a esigenze materiali e convenienze militari più che a scelte ideologiche: l’URSS “comunista”, alleata di Hitler fino al momento in cui i carri tedeschi ne violano le frontiere, si schiera a fianco dell’America capitalista; il moderno apparato militare tedesco a fianco dei kamikaze giapponesi, eredi dell’arcaica tradizione samurai.

Per spiegare la grammatica e la sintassi della guerra Mandel “smonta” il fenomeno bellico nelle sue componenti, materiali e non, un processo in cui prima del capitolo dedicato all’ideologia vengono quelli sulle forze sociali, le risorse, la strategia, gli armamenti, la logistica, scienza e amministrazione. Come nell’Introduzione del 1848 a Per la critica dell’economia politica Marx distingue tra Forschungsweise (modalità di analisi) e Darstellungsweise (modalità di esposizione), analisi e sintesi, e allo stesso tempo ne coglie l’unità quali poli dialettici della conoscenza, qui Mandel inizialmente scompone la guerra nelle sue componenti fondamentali per poi mostrarne all’opera l’intima connessione. Lo stesso metodo applicato al genocidio nazista, nel testo del 1988 che è stato incluso in appendice al volume, anch’esso in prima edizione italiana. Se oggi ci interroghiamo sulla guerra del futuro il punto di partenza non può che essere lo stesso: tentare di capire in che modo lo sviluppo delle forze sociali e delle nuove tecnologie influirà sulla comparsa di nuove forme di organizzazione militare e di nuove armi e come ciò a sua volta influenzerà la formulazione della  strategie necessarie a realizzare gli obiettivi politici e l’involucro ideologico in cui si condensano le esigenze materiali di quelle forze sociali nei diversi paesi.

In questo senso, dunque, Il significato della Seconda guerra mondiale non è solo il tentativo di analizzare scientificamente un evento cruciale della storia contemporanea, ma si presta a essere letto anche come un vero e proprio “manuale di geopolitica” che ci indica il metodo e gli strumenti necessari ad analizzare il periodo che viviamo. Un periodo in cui l’idea che una guerra vera e propria, non semplicemente una guerra commerciale, “ibrida” o “per procura”, possa aver luogo e non solo lontano o alla periferia dell’Occidente si riaffaccia alle nostre coscienze: “Nessuno può considerare garantiti altri 50 anni di pace in Europa” ammoniva 10 anni fa Angela Merkel”. Un manuale di cui ci pare che oggi ci sia tremendamente bisogno. Perché dove viene meno l’analisi scientifica dei fatti passati e presenti hanno terreno fertile sia i complottismi che le verità di Stato.

Ernest Mandel, Il significato della Seconda guerra mondiale, Roma, PuntoCritico, 2021 (uscita: dicembre), 316 pp., in 16°, prima edizione italiana, 15 euro (ISBN: 979-12-200-9948-6). Introduzione di Pietro Acquilino. Traduzione di Antongiulio Mannoni. In appendice Premesse materiali, sociali e ideologiche del genocidio nazista (1988), di E. Mandel.

Presentazione del libro: http://www.puntocritico.info/wp-content/Stories/mandel_ww2/

Crowdfunding: https://www.produzionidalbasso.com/project/il-significato-della-seconda-guerra-mondiale-di-ernest-mandel/

Info e presentazioni: assopuntocritico@gmail.com – +39 3337914004

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