Storia
Ultimi, invisibili, muti
Carlo Greppi con storie che non fanno la Storia, torna a raccontare e scavare sull’importanza del racconto di storia e che cosa significhi
Il racconto della storia continua ad essere una narrazione in cui conta il capo, in cui si mettono al centro gli eroi (ovviamente quelli che sono utili e funzionali alla esaltazione di ciò che si vuol proporre come esemplare, “edificante”). In breve, una storia statuaria.
La storia come azione di persone comuni, come ricostruzione di decisioni di resistenza, la storia come descrizione della vita e della quotidianità, o anche della eccezionalità, di rado arriva a farsi spazio.
Anche se qualcuno, per esempio Nuto Revelli, con la sue indagini sui contadini, sulle donne, su quelli non tornati a casa dalla guerra, o di quelli che con mille traversie sono tornati ci ha provato, e ha dimostrato che cosa significa, soprattutto ha mostrato come si fa.
Il primo spunto che sostiene e che costituisce la ragione di storie che non fanno la Storia, parte da qui. Significa che la storia per essere spiegata non può ridursi solo a storia dei famosi, ma chiede che si prendano in carica, e si mettano sul campo anche le molte vite non note, le molte storie che non sono entrate nella Storia (quella, appunto, con la “S” maiuscola).
Non significa che le storie che troviamo debbano essere storie esaltanti, o eccezionali, ma spesso sono capaci di spiegare gli eventi che anche quelli di grande rilevanza, con maggior chiarezza di quanto non facciano le “grandi storie”.
Scrivere la storia dei grandi stermini o della caccia al nemico non è più lo stesso dopo aver letto Uomini comuni di Christopher Browning, o dopo aver visto Bastardi senza gloria.
Poi il secondo tema è come le storie di vite comuni, una volta ripescate e messe dentro un libro di storia, consentono alla storia, nella versione che conosciamo, di essere riscritta, perché improvvisamente da gioco bianco/nero, il quadro diventa non “grigio”, bensì “mosso” e anche quello che si accredita come “grigio” non è solo appiattimento, disinteresse o menefreghismo. O se lo è lo è come conseguenza di una scelta.
Quando anni fa sulla scorta della lunga scia aperta da Una guerra civile di Claudio Pavone, Giovanni De Luna ci ha dato un libro con La Resistenza perfetta, o lo stesso Greppi con Uomini in grigio, e con L’ultimo treno.
Nel caso di Uomini in grigio il tema era esattamente quello: ritrovare le forme dei sentimenti, ciò che genera scelte( e dunque atti) da parte degli individui che si trovano nella «zona grigia», spesso , scavare nella storia grande, attraverso la ricostruzione di atti, azioni, che hanno la loro fucina di costruzione nei sentimenti che si provano. Una condizione che nasce nel laboratorio storiografico di chi interpreta la storia non più solo come atti, ma come storia di vite che si misurano con sentimenti, scelte, valori, azioni.
Nel secondo caso – L’ultimo treno – non era solo cercare ricostruire storie che spesso erano rimaste ai margini o senza narrazione (unico caso: Il grande viaggio di Jorge Semprun, da tempo non più disponibile) ma mettere al centro anche cosa significava raccontare una scena dalla parte di chi è descritto come “inerte”, “passivo”, “sconfitto”.
In entrambi i casi il tema è che per «raccontare la storia», occorre raccogliere storie, mettere a nudo dove e che cosa la storia ufficiale o quella accolta come storia pubblica ha oscurato o tralasciato (più o meno volontariamente); proporre E poi secondo una lezione mai dimenticata del Marc Bloch di Apologia della storia essere consapevoli che il racconto di storia è un’approssimazione per difetto alla scena complessiva e che descrivere la battaglia di Waterloo lo si può fare da molti punti di vista – come ci ha detto anni fa Nicola Chiaromonte – anche con gli occhi di chi ci arriva per caso, come Fabrizio del Dongo ne La Certosa di Parma, ma soprattutto attento a misurarsi con ciò che è la storia, come ha ricordato Alessandro Leogrande.
E dunque siccome la storia non si scrive una volta per tutte, a maggior ragione valgono le storie dei marginali.
Sia chiaro: dire che la storia non scrive una volta per tutte non significa dire che la Seconda guerra mondiale l’hanno vinta le potenze dell’Asse. Ma significa sapere che fare i conti con quella storia, se lo si vuol fare per davvero, implica raccogliere quante più voci possibile, trovare percorsi in cui la memoria di dopo si fissa in ricordi, storie (a loro volta selezionate e “parziali”) che si tratta di ritrovare dedicandosi a quella storia orizzontale dove al centro stanno le persone, quante più persone possibile.
Talvolta anche andando a scavare nelle storie di coloro che vogliono uscire dalla storia, o che nella storia non hanno nessuna intenzione di entrarci o, comunque, si sottraggono (così come Lorenzo Perrone) Solo così, forse si può provare a costruire una Storia (con la “S” maiuscola), rinnovata.
Ci va della pazienza, e anche della passione. A Carlo Greppi non mancano: né questa, né quella.
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