Storia
Tutta colpa di Attila, indagine su un nome di famiglia
Il titolo di questa storia potrebbe essere “Tutta colpa di Attila”, perché il Grande Unno in qualche modo c’entra, e poi recentemente si è molto parlato del Flagello (o del Fratello, secondo Diego Abatantuono) di Dio.
Allora, la mia amica Tiziana Riva mi chiede su Facebook: “Perché negli ultimi tempi vai sempre a Venezia? Hai una fidanzata in loco?” No Tiziana, nessuna fidanzata. Se sono andato spesso a Venezia negli ultimi mesi, è colpa di Attila, e ti spiego perché.
Da tempo cercavo di saperne di più sulle origini della mia famiglia. Famiglia intesa nel senso più ampio, cioè del cognome che porto: Salamon (cognome che da bambino detestavo, quando i compagni mi davan del salame).
Un cognome raro: in Italia siamo forse un paio di centinaia di persone a portarlo. A parte la mia (profuga dall’Istria) quasi tutte famiglie abitanti da secoli nel Trevigiano.
Un cognome “strano”: di chiare ascendenze ebraiche, ma in Italia i Salamon non appartengono da secoli alla comunità ebraica; mentre, ad esempio, se andate al mausoleo della Shoah di Praga i morti nei lager nazisti che portano questo cognome occupano una intera parete.
Fin da ragazzino, superato il problema degli scherzi dei compagni, questo strano nome di famiglia mi aveva incuriosito. Girando tra Istria e Dalmazia avevo trovato il mio cognome su lapidi del 1500 col leone alato, che ricordavano le opere compiute da un paio di Salamon nelle loro funzioni di Provveditori di San Marco (una sorta di governatore coloniale della Serenissima).
E un ebreo non poteva certo fare il funzionario pubblico, nella pur tollerante Serenissima Repubblica (tollerante nel senso che persecuzioni o espulsioni mai le fece, forse perché la professione di cambiavalute, interdetta per secoli ai buoni cristiani, era essenziale per la città che nel medioevo fu il gigante del commercio mondiale. E quando scoppiava una pestilenza, e a Venezia porto di mare succedeva ogni due per tre, gli unici medici a cui ci si poteva rivolgere erano ebrei. Ma a Venezia sorse il primo quartiere in cui gli ebrei erano rinchiusi di notte. E la Repubblica decise di costringere gli ebrei nell’area della città prima riservata alla fusione – cioè al getto, al “gheto” del metallo.
A Venezia avevo trovato due “Calle Salamon” (una a Cannaregio, l’altra a Castello), e una volta mio papà mi aveva portato in un bel palazzo di Campo San Polo da un signore vecchissimo e quasi sordo il cui nonno materno (mi disse) portava il nostro cognome.
A vent’anni, durante un viaggio in tenda e motorino a Creta, in un museo di Heraklion che ricordo molto polveroso, avevo notato appesa al muro una carta nautica del ‘600 dove un promontorio a est di Sitia portava un nome a me famigliare, capo Salamon. Ero voluto andare a vedere quel promontorio (che non si chiamava più così) ma non vi trovai alcuna traccia storica. Rischiammo di scassare i motorini (un Sì e un Boxer, quello con la sella comoda per due) lungo la sterrata che lo percorreva, ma fummo ricompensati raggiungendo una baia bellissima con la solita taverna coi tavoli sotto i tamerici: quei posti dove il retsina tiepido ti sembra il miglior bianco del mondo, e anche lo tzatziki in scatola buonissimo.
A questo punto una cosa mi era chiara: Salamon era una famiglia veneziana, che aveva vissuto, oltre che a Venezia, in diversi luoghi della Repubblica. I Salamon erano forse di origini ebraiche, ma forse no, visto che sicuramente non erano (più?) di religione ebraica da almeno 500 anni.
Ma quali erano le sue radici più antiche? E quel nome che richiama il profeta figlio di David è un caso, o effettivamente indica una origine ebraica?
Non sono uno storico, ma mi sarebbe piaciuto esserlo. E ho una gran passione per le biblioteche di ogni epoca e tipo (a proposito, conoscete a Milano la Piccola Biblioteca Libera? Pubblicità!) e per quei luoghi un po’ misteriosi ma spesso bellissimi che sono gli archivi.
Mettendo insieme curiosità e passioni, ho pensato che potevo concedermi un po’ di gite a Venezia, (anche) per recarmi nei soli luoghi dove potevo forse trovare qualche risposta agli interrogativi circa le radici della mia famiglia e del suo nome: la Biblioteca Marciana (sta di fronte a Palazzo Ducale, è imperdibile per ogni amante del genere) e l’Archivio di Stato (altro posto magnifico, con la sala di lettura che ho sempre sognato; è accanto ai Frari, dove c’è l’Assunta del Tiziano, il quadro dei quadri secondo Herman Hesse).
Mettendo insieme ciò che già sapevo e cioò che ho “scoperto”, ne è venuta fuori questa storia. (Che Storia con la esse maiuscola non è, perché sarebbe necessario passare ancora molti giorni in quelle sale di lettura per renderla tale – e magari un giorno lo farò, mi sembra una buona scusa per tornare in una delle due città più belle del mondo – l’altra è Roma, ovviamente).
C’era una volta, tanto tempo fa (primi secoli del primo millennio) ad Aquileia (colonia romana in Friuli, snodo commerciale tra il selvaggio nord e il Mediterraneo, terminale sud della Via dell’Ambra) una famiglia ebrea chiamata Salamon o Salomon.
Ad Aquileia, città portuale, abitava una importante comunità ebraica, tanto che vi sono stati ritrovati i resti di una sinagoga (gli unici dell’Italia romana con quelle di Ostia e di Bova Marina) riconosciuta come tale dagli archeologi per il pavimento a mosaico, dove mancano simboli pagani o cristiani, ma è ripetuto il solo motivo del Nodo di Salomone (che, leggo, appare oggi stilizzato sul tasto command del Mac).
Dice fonte certa che gli ebrei di Aquileia si dedicavano all’arte della fusione del vetro e a quella della tintura dei tessuti: tecniche ben note da secoli in Israele, ma pressoché sconosciuta nella parte europea dell’Impero Romano.
La vita dei Salamon o Salomon ad Aquileia, vetrai o tintori che fossero, procede tranquilla fino all’anno 452, quando Attila, essendosi forse preso una sbandata per Giulia Gratia la sorella dell’imperatore Valentiniano III, attraversa le Alpi e distrugge Aquileia dopo un assedio che alcuni storici dicono durato 3 anni, altri 3 settimane (gli storici non vanno mai d’accordo tra di loro, si sa).
La popolazione di Aquileia fugge sulle isole della laguna veneta: decisione razionale essendo i barbari ottimi cavalieri, ma mediocri naviganti.
Sulle isole nascono i centri di Malamocco, Equilio e Torcello, dove davanti al museo, trovate il Trono di Attila, dove il Grande Unno non si sedette mai, non potendoci arrivare a cavallo (ed essendo posteriore di un paio di secoli).
(Oggi l’isola di Torcello ha 13 residenti, poche case, due splendide chiese dell’anno 1000 e la Locanda Cipriani, l’unico ristorante al mondo dove la Regina Elisabetta II° sia mai entrata in forma privata, forse a mangiarsi un carpaccio. Hemingway passò alla Locanda il novembre del 1948 a bere vodka, mangiare caviale – che evidentemente preferiva alle sarde in saor – e a scrivere “Di là dal fiume e tra gli alberi”, in cui racconta delle sue deplorevoli cacce in laguna e del suo amore per Adriana Ivancich, diciottenne di origine dalmata forse quasi mia parente (un prozio acquisito sposò una Ivancich, vallo a sapere – le parentele nella comunità istro-dalmata sono sfuggenti e intricatissime; mia figlia dice “ogni volta che andiamo in Croazia scopro un nuovo cugino”).
Proprio a Torcello pare abbia vissuto la famiglia Salamon nei secoli tra la calata di Attila e la nascita di Venezia sull’isola di Rialto.
Nel 697 i Salamon risultano tra le famiglie elettrici del (probabilmente leggendario) primo doge, Paoluccio; ma non appaiono tra le “famiglie apostoliche” mitiche fondatrici della città. Forse perché una famiglia di origini ebraiche non poteva aspirare a questo onore?
Nel 916 sono a Venezia, con diritto di voto al Gran Consiglio, ma non col nome Salamon, con quello Centranico. E Pietro Centranico si chiama l’unico doge “di famiglia” eletto nel 1026, e inviato in esilio pochi anni dopo a Costantinopoli (pare non avesse la stoffa per fare il doge). E con lui scompare anche il nome Centranico. Forse che questo cognome neutro fu adottato per mimetismo dai Salamon ebrei, per poter essere ammessi nella vita politica della neonata Repubblica di San Marco?
(Il corpo di San Marco fu trafugato da mercanti veneziani ad Alessandria d’Egitto nell’828, che riuscirono a farlo uscire dal paese nascondendolo sotto carne di maiale affumicata – ma anche questa è storia con la esse minuscola, storytelling medioevale).
Dopo cento anni di assenza, il cognome Salamon rispunta nel 1152, quando un Vitale Salamon risulta tra i sottoscrittori per la costruzione del Campanile di San Marco (a proposito, quello che vedete oggi è una copia: l’originale crollò nel 1902, fortunatamente senza fare vittime se non il gatto del custode – ma anche sulla morte del gatto gli storici si dividono; io credo che il suo istinto felino l’abbia salvato dal crollo).
Poi per un altro secolo, nebbia fitta. Dei Salamon a Venezia nel 1200 non ne ho trovato tracce.
Ma all’Archivio di Stato di Salamon o Salomon ho trovato pieni i registri della nuova colonia della Repubblica, l’isola di Candia (Creta), divenuta veneziana nel 1204, al seguito IV Crociata. La Serenissima aveva diviso l’isola in sei regione, una per ciascun sestiere veneziano, favorendo l’insediamento di coloni provenienti dalla allora sovraffollata Venezia, e i Salamon vi si erano recati in cerca di fortuna, come altre famiglie veneziane.
(In occasione di quella sgangherata crociata il genio politico mercantile di Venezia riuscì a barattare il mancato pagamento di un esoso contratto di nolo della sua flotta ai crociati col suo cambio di destinazione, non più Gerusalemme ma Costantinopoli, capitale dell’Impero Bizantino. E Venezia si portò a casa le isole dell’Egeo e un enorme bottino: i Cavalli di San Marco, per dire, fino al 1204, adornavano l’ippodromo di Costantinopoli, quello dove ai tempi di Bisanzio gli ultras Verdi, proletari e Azzurri, borghesi, se le davano per secoli di santa ragione).
E sempre all’Archivio di Stato di Venezia ho trovato la tessera mancante. che può spiegare quello strano cognome ebraico. Il gentilissimo archivista mi ha tirato fuori dei volumetti dove sono riportati i titoli degli atti notarili fatti da notai veneziani a Creta tra il 1250 e il 1450. Pieni di Salomon e Salamon che compravano, vendevano, ereditavano. Ma se fino a inizio 1300 accanto al cognome era quasi sempre indicato “judeo”, questa scompariva nei decenni successivi. Il figlio non più “judeo” ereditava dal padre, che risultava tale in atti precedenti. E spariva Salomon in favore del più neutro Salamon.
Ipotesi: ai primi del 1300 i Salamon di Candia si convertono, per entrare a pieno titolo nella vita civile e politica della Repubblica, senza più necessità di cambi in corsa di cognome.
L’entrata in società è sancita nel Libro della Nobiltà veneziana, che parte dal 1350 circa, e in cui vengono scrupolosamente elencati in alberi genealogici i maschi delle famiglie patrizie veneziane, fino alla caduta della Repubblica.
Nel Libro della Nobiltà i Salamon sono divisi in tre rami, in cui il primo riporta appunto il nome di Salamon di Candia, mentre gli altri due non hanno denominazione di luogo, quindi probabilmente residenti a Venezia (ma estremamente mobili: la sfilza di Provveditori della Repubblica, compreso Marco Salamon accusato di commercio col Turco durante l’assedio di Nauplia nel 1480 e quindi scagionato, e Zaccaria che portò a Lepanto una galea con equipaggio “volontario” tirato su nelle osterie di Caorle, appartengono a uno dei rami “veneziani”, probabilmente ben inserito in politica).
Ogni ramo ha un capostipite, all’incirca negli stessi anni. Che i tre capostipiti fossero fratelli, o perlomeno cugini, alcuni rientrati a Venezia? Non è dato sapersi. Come non so con certezza a quale ramo appartengano i miei avi Salamon istriani.
Ipotizzo ai Salamon di Candia, perché è quello che, alla caduta della città in mano al Turco nel 1669 (dopo 21 anni di assedio della città – quasi un record mondiale) potrebbero essere stato spedito in parte in Istria, in parte nel Trevigiano, “orto” di Venezia (ed ecco spiegata l’attuale concentrazione di cognomi Salamon in quell’area).
Perché la Serenissima, come la US Army del Soldato Ryan, non lasciava indietro i suoi cittadini. Quando una città della Repubblica cadeva in mano al Turco i suoi abitanti “veneziani” avevano salva la vita, ma dovevano lasciare la città senza portare nulla con sé. Ci pensava la Repubblica a dare loro una nuova proprietà (un campo, una casa) in altro territorio della Serenissima.
In Istria, i miei avi diretti hanno vissuto negli ultimi secoli, prima a Gallignana (bellissimo paese dell’interno, cinto da mura, con una chiesa con affreschi quattrocenteschi, un cadente ma a me molto caro palazzo Salamon e una ottima trattoria, la Konoba Marino, n°1 dei quattro ristoranti del luogo su Tripadvisor), poi a Pola, a partire dalla metà dell’800, quando la città, diventata il principale porto della flotta dell’Impero Austro-Ungarico conobbe un boom demografico.
Ho memoria sicura di questo ultimo periodo. Mio bisnonno Luigi aveva creato a Pola una torrefazione e una drogheria. Aveva sposato Elena, dei de Franceschi di Moncalvo d’Istria, nipote di Carlo, deputato alla costituente di Vienna del 1849 e di Camillo, storico (uno storico in famiglia!). Suo figlio cadetto Ezio (mio nonno), meno portato per gli affari, aveva sposato una bella ragazza croata, Zora Dobrich (poi Albina, quando l’anagrafe fascista attuò una ridicola italianizzazione di nomi e cognomi, per cui i fratelli Vidulich si ritrovarono sulla carta d’identità uno Vidoni e l’altro Vedovi), la mia amatissima nonna Linci, donna di grande saggezza e abilità in cucina
In Istria convivevano in buona armonia, prima ai tempi della Repubblica e poi dell’Austria, Italiani, Croati, Sloveni ed altre comunità (Austriaci, Ungheresi, Serbi, Greci…). Come esempio di lugimirante integrazione in famiglia si cita l’esempio della bisnonna Luzia Radovich, venuta a Pola da Albona col marito divenuto da pastore operaio all’Arsenale, che avendo tre figlie ne aveva mandata una (mia nonna) alla scuola italiana, un’altra (la zia Bebe) alla scuola tedesca e la terza alla scuola croata.
Questo esempio di convivenza tra genti, durato oltre mille anni, fu spazzato via dai totalitarismi del XX Secolo e dal vortice della II guerra mondiale.
Chissà se davvero i Salamon fuggirono da Aquileia nel 452, temendo la vendetta degli Unni. E’ molto probabile che dei Salamon fuggirono da Creta nel 1669, temendo quella dei Turchi.
Di sicuro mio padre, i miei nonni e la zia Bebe (quella nostalgica dell’Austria, avendo stretto nel 1914 la mano dell’Arciduca Carlo, poi ultimo imperatore) a guerra finita fuggirono da Pola, temendo la vendetta dei partigiani jugoslavi vincitori.
Era la primavera del 1947.
1505 anni dopo il primo (possibile? probabile?) esodo dei Salamon, quello che avvenne per colpa di Attila.
QUALCHE CONSIGLIO
(A Venezia, visitate la Biblioteca Marciana – dovete registrarvi, ma è gratis e lo fanno in pochi minuti – e l’Archivio di Stato, se non altro per visitare la sala di lettura e il bellissimo cortile. Simile procedura che alla Marciana. Sempre a Venezia calle Salamon a Castello non ha alcun elemento monumentale, ma alcuni fili stendibiancheria stesi tra le case sono particolarmente fotogenici, come avete visto sopra. E il quartiere, ancora popolare, molto interessante).
(Aquileia è bellissima, vale la pena farci un fine settimana. Evitate l’Ostello, decisamente triste – ci sono diversi bei B&B. Il Museo Nazionale Archeologico è uno dei più belli d’Italia, con una magnifica collezione di vasi in vetro – ricordate cosa facevano gli ebrei in quella colonia? Poi la Basilica coi suoi mosaici, ovviamente. E il Museo Paleocristiano, che contiene i resti di una basilica costruita sul sito della sinagoga. E’ aperto solo al mattino, e chiuso la domenica. Buona fortuna. Poi si possono fare le escursioni in laguna con Capitan Marco di http://www.lagoonboatexcursionsaquileia.it. Io non ci son stato, ma chi ci è andato mi dice che le escursioni meritano.)
(Torcello vale alla grande la visita, magari insieme a Burano con le sue case colorate. A Torcello le chiese di Santa Maria Assunta con i suoi mosaici – a me piace molto quello del Giudizio Universale, veramente pulp – e di Santa Fosca, di pura architettura bizantina. Per pranzo, se avete ampie disponibilità, potreste imitare la Regina Elisabetta II)
(Infine: su Attila, la sua sete di conquista che costrinse i Salamon e molti altri alla fuga in laguna e i suoi possibili dubbi esistenziali leggetevi “Il flagello di dio, una avventura rocambolesca di Attila l’Unno”, scritta da Manu Larcenet e disegnata da Daniel Casanave, pubblicata in Italia da Coconino Press. Una bellissima graphic novel, che di storico non ha nulla, ma contiene egualmente parecchie verità, credo)
Marco Salamon, dicembre 2018.
Devi fare login per commentare
Accedi