Storia
Tradimento. Quante storie!
Ha ragione Marcello Flores. Studiare i tradimenti, ricostruire la vicenda dei traditori fa capire molte cose. Su questo piano Flores riprende e amplia un’intuizione geniale e allora solitaria di Pierre Vidal Naquet con il suo Il buon uso del tradimento il testo che Pierre Vidal Naquet scrive a metà anni ’70 come introduzione a La Guerra giudaica di Giuseppe Flavio.
Vidal Naquet diceva in sostanza che la decisione del generale Joseph ben Matatiahu a tutti noi noto con il nuovo nome di Giuseppe Flavio era quella che ci aveva consentito di avere un libro di storia, anzi era l’unica fonte che con autorevolezza e attendibilità ci consentiva di ragionare, laicamente e serenamente, sulla sconfitta di allora, e, soprattutto, sulla cultura ebraica, che rimaneva dopo quella sconfitta davvero epocale e su come po, da lì, si fosse costruita una nuova impalcatura culturale.
Quel libro dunque era il risultato del tradimento, ma era anche la premessa per una rinascita. Quel tradimento dunque alla fine non era solo “tradimento”, ma era anche un modo attraverso il quale qualcuno aveva fatto una scommessa ardita con la storia.
Molti secoli dopo la stessa sfida avranno altri ebrei che cercheranno contro di mantenere se stessi, attraverso l’esperienza marrana. Dissimulando se stessi, continuamente tradendo ciò che sono e ciò che dichiarano di essere. Tra la loro dimensione pubblica e quella privata, quella esperienza ci consente di capire il tradimento anche sotto un’altra veste: la partita tra fedeltà, conservazione e rinnovamento parte da una scommessa sul futuro che si ancora a un tradimento nel presente.
Contemporaneamente il tradimento è fedeltà a un principio cui si ritiene non poter venir meno contro un potere pubblico che dichiara di sottoscriverlo, ma in realtà lo viola sistematicamente. La disobbedienza civile che propone Thoreau ha il suo nocciolo duro qui.
Il tradimento è dunque un’esperienza molto variegata e intrigante, dai segni molto incerti.
Alla sua origine sta tuttavia un atto che comunica pubblicamente la non più appartenenza a un gruppo.
E’ con questo assunto che Marcello Flores, con Traditori. Una storia politica e culturale (il Mulino), prova a riscrivere una storia dei gruppi umani. Il tradimento infatti più che la fedeltà definisce come nel tempo i gruppi umani hanno costruito la loro identità, rispetto a che cosa l’hanno definita e soprattutto contro che cosa l’hanno affermata.
Ci sono molte cose “buone” che Marcello Flores mette in mostra nel suo libro sui traditori .
Quella che Flores delinea nelle poche pagine che dedica al mondo antico e in quelle più dense che dedica alle forme del tradimento in epoca moderna (il volume si chiude al 1914 ed è la prima parte di una fenomenologia del tradimento che nel secondo volume arriverà fino a oggi) è dunque la storia di come il potere sceglie, indica e poi tratta, coloro che indica come traditori.
Il tema è dunque non tanto chi o che cosa consapevolmente il traditore tradisce, ma che cosa lo rende perseguibile come traditore.
Flores ricostruisce molti scenari tra antichità ed età moderna. Se a lungo il tradimento è venir meno al vincolo col re, nella modernità quell’atto indica e implica il sentirsi fuori dal patto che fa di un gruppo, un gruppo (l’idea di nazione, il riconoscersi in un dettato giuridico, in un testo giuridico). In questo secondo caso è intorno all’idea di nazione che si stabilisce il parametro del tradimento.
Ma quell’idea è mutevole e nella sua mutevolezza il problema del bene nazionale, di ciò che si ritiene sia il bene nazionale, o della identificazione tra il bene della nazione e la propria persona, diviene un parametro essenziale per capire che cosa è percepito come tradimento: Tallerand o Joseph Fouché che prima servono Napoleone e poi passano al nuovo potere una volta caduto Napoleone sono due esempi significativi di quella doppiezza.
E’ un meccanismo più volte ripetuto nei passaggi da un regine all’altro, talvolta in età contemporanea esso avviene in forza della continuità dell’apparato dello Stato (tutti i passaggi dai totalitarismo alle democrazie sono segnati da questo passaggio: L’Italia tra fascismo e repubblica è un caso esemplare, non unico).
Ma quel tema della fedeltà non riguarda solo il potere, riguarda anche il giudizio su chi si ritiene investitio dell’autorevolezza di scegliere o di indicare l’infedele, o il traditore.
E’ la scena del processo a Carlo I, ma soprattutto quella del processo a Maria Antonietta d’Asburgo su cui Flores insiste, perché nella retorica della morale dei rivoluzionari egli intravede, giustamente, un tratto di misoginia, di odio conclamato per la donna che sarà spesso un tratto significativo della visione sociale e del ruolo attribuito ai sessi nella storia da parte dei rivoluzionari moderni, no solo nel Settecento ma anche dopo, spesso fino alle forme più vicine a noi dei movimenti di liberazione, culturali, politici, sia della stagione dei movimenti della controcultura o delle forme sessantottine, sia dei movimenti di liberazione nazionale che hanno caratterizzato le realtà coloniali, ma anche le forme culturali dei paesi emergenti ex colonie (un paese per tutti, l’India).
Un processo che non riguarda solo il giudizio sulle regine o sulle figure femminili potenti del regime passato, ma anche e spesso prevalentemente le figure femminili che di fronte ala libertà nascente rivendicano un ruolo, indicano una contraddizione, sottolineano la necessità di una libertà di genere. Nel caso francese è la figura di Olympe de Gouges che nel 1791 presenta la Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne che il 3 novembre 1793 il Comitato di Salute pubblica manda alla ghigliottina.
I traditori sono la lunga lista di “cattivi maestri” che il potere non può lasciare agire indisturbati, da Socrate a Oscar Wilde. Ogni volta è la dimensione dell’intellettuale pubblico che non può permettersi di scegliere. La sua funzione è quella di “adeguarsi”, oppure di soccombere (in questo senso Wilde rappresenta la sfida non sottomessa al gioco), di essere distrutto come traditore, come colui o colei che è venuto meno a un obbligo e dunque per questo punito. La sanzione è quella dell’espulsione, o della marginalizzazione nelle forme meno violente. Segno più evidente della propria sconfitta perché nella sua nuova condizione di sopravvissuto neutralizzato sta la legittimazione del potere che lo azzera, e lo lascia vivere, o lo uccide.
Significativamente la Francia tra fine Ottocento e Prima guerra mondiale vive entrambe queste esperienze. La prima è rappresentata dal caso Dreyfus, la costruzione di un “capro espiataorio” intorno a cui si mobilita tutta la società francese. La sconfitta del mito del complotto lascia un paese spaccato tra i sostenitori del diritto che celebrano il trionfo della verità e gli ossessionati del complotto che pensano che ancora una volta i “poteri forti” l’hanno avuto vinta. E’ il 1906.
La prossima volta , si dicono questi ultimi, bisognerà cambiare registro: occorrerà uccidere.
Non occorre attendere molto tempo. Quella Francia, a destra come a sinistra (perché a lungo a Dreyfus come ebreo complottista hanno creduto non solo i nazionalisti o i cattolici ma anche larghe fasce di mondo operaio e socialista) si prende la sua rivincita. Il 31 luglio 1914 qualcuno uccide, appunto perché marginalizzare o punire non è una certezza. La vittima è Jean Jaurès, leader socialista, dreyfusardo, convinto sostenitore della pace. Quattro giorni dopo è la guerra. Inizia il Novecento, per davvero, e da quelle giornate si consolida una nuova immagine del traditore.
Marcello Flores ha promesso di raccontarcela in un secondo volume. Aspettiamo con fiducia. Buono il primo.
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