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Storia
Tito: un personaggio da analizzare e non demonizzare
Di recente, il Quirinale ha chiarito la questione riguardante l’onorificenza conferita a Josip Broz Tito, sottolineando che le onorificenze sono legate alla vita dell’insignito e decadono automaticamente con la sua morte.
Tale precisazione è stata resa nota dal coordinatore regionale di Fratelli d’Italia, Walter Rizzetto, firmatario di una proposta di legge per la revoca del titolo di Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana assegnato al defunto leader jugoslavo.
L’intera vicenda, a mio parere, appare una polemica sterile e inutile. Infierire su un morto è una pratica riprovevole, tanto più quando si tratta di una figura storica complessa come quella di Tito, la cui eredità meriterebbe una valutazione più equa e ponderata. Piuttosto che insistere su revoche postume di onorificenze, dovremmo considerare con maggiore attenzione il ruolo che Tito ha avuto non solo nella storia della Jugoslavia, ma anche nei rapporti internazionali del secondo dopoguerra.
A differenza dell’esercito partigiano italiano, quello jugoslavo fu un vero esercito popolare, che riuscì a organizzare una resistenza efficace e capillare contro le forze dell’Asse, guadagnandosi il riconoscimento degli Alleati. La leadership di Tito si distinse non solo per la conduzione della guerra partigiana, ma anche per la sua capacità di consolidare il potere in una Jugoslavia devastata dal conflitto.
Uno degli aspetti più rilevanti della sua politica fu la rottura con l’Unione Sovietica nel 1948. Motivato dal desiderio di costruire un’economia indipendente e autonoma, Tito divenne il primo e unico leader comunista a sfidare apertamente Stalin e la sua visione monolitica del blocco socialista. Questo atto di ribellione portò alla sua espulsione dal Cominform, ma allo stesso tempo rafforzò la posizione internazionale della Jugoslavia, che divenne un paese non allineato capace di mantenere un equilibrio tra Est e Ovest durante la Guerra Fredda.
Il distacco dal blocco sovietico consentì a Tito di avvicinarsi agli Stati Uniti e alla NATO, favorendo una serie di accordi per la stabilizzazione dell’area adriatica. Pur rimanendo formalmente neutrale, la Jugoslavia partecipò a iniziative militari con Grecia e Turchia sotto l’egida della NATO, dimostrando una significativa apertura verso l’Occidente. Questo clima di maggiore collaborazione facilitò anche una soluzione diplomatica con l’Italia sulla questione di Trieste: nel 1954, il Memorandum di Londra sancì la divisione del territorio tra i due paesi, con la Zona A assegnata all’Italia e la Zona B alla Jugoslavia. Tale accordo venne poi definitivamente ratificato con il Trattato di Osimo nel 1975.
All’interno del suo paese, Tito cercò di sviluppare una forma di socialismo più aperta e autonoma rispetto a quella sovietica. Questa politica incontrò l’opposizione dei comunisti ortodossi, culminando nella cospirazione guidata da Aleksandar Ranković, capo della sicurezza. La sua destituzione nel 1966 segnò un passo verso una maggiore liberalizzazione, favorendo la libertà di espressione e l’autonomia degli artisti e degli intellettuali. Tito dichiarò esplicitamente che il futuro della Jugoslavia sarebbe stato determinato dalla forza delle idee, anziché dai metodi dittatoriali. A conferma di questa svolta, l’Agenzia di Sicurezza dello Stato (UDBA) venne ridimensionata e il numero dei suoi membri ridotto.
Nel 1967, la Jugoslavia divenne il primo paese comunista ad aprire le proprie frontiere ai visitatori stranieri, abolendo il regime dei visti. Questa apertura segnò un’importante differenziazione rispetto agli altri paesi socialisti dell’epoca, confermando la volontà di Tito di costruire un modello di socialismo indipendente e flessibile. Lo stesso anno, Tito assunse un ruolo attivo nella diplomazia internazionale, cercando di mediare il conflitto arabo-israeliano. La sua proposta di uno scambio tra il riconoscimento dello Stato di Israele e la restituzione dei territori occupati venne respinta dagli stati arabi, ma rappresentò comunque un tentativo innovativo di risoluzione pacifica.
Nel 1968, durante la Primavera di Praga, Tito offrì il suo sostegno ad Alexander Dubček e condannò fermamente l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Questa presa di posizione migliorò ulteriormente la sua immagine nei paesi occidentali e confermò il suo impegno per un socialismo non subordinato a Mosca.
Analizzando la figura di Tito, emerge un leader pragmatico, capace di costruire una nazione multietnica stabile per decenni, nonostante le tensioni interne. La sua visione di uno stato federale cercò di bilanciare le diverse identità nazionali, anche se con il tempo le divisioni latenti esplosero tragicamente dopo la sua morte.
Alla luce di questi elementi, l’onorificenza italiana conferita a Tito appare giustificata. Non si trattò di un gesto arbitrario, ma del riconoscimento del suo ruolo nella stabilizzazione della regione e nei rapporti con l’Italia. Piuttosto che insistere sulla revoca postuma di un titolo ormai decaduto per legge, sarebbe più utile un’analisi storica approfondita, che valorizzi gli aspetti positivi della sua leadership senza trascurarne le criticità. Solo così possiamo evitare di trasformare la storia in un mero strumento di polemica politica.
Aggiungerei che la Serbia è stato l’unico stato dell’Est europeo a sfidare apertamente Hitler e l’esercito tedesco, subendone gravemente le conseguenze (l’esercito tedesco e gli ustascia furono particolarmente efferati, con il sostegno e la complicità dell’esercito italiano, non dimentichiamolo); fu anche l’unico paese dove i partigiani riuscirono a liberarsi dei tedeschi senza la presenza diretta sul campo di un esercito alleato. Come dite voi, la storia va guardata nel suo complesso. Nessun leader politico di quel periodo è “innocente”, bisogna però saper guardare anche la trave nei nostri occhi, e non solo in quelli altrui.