Partiti e politici

The End of Anglophilia?

4 Gennaio 2017

Il referendum costituzionale del 4 Dicembre 2016 potrebbe forse essere stato il momento in cui un paradigma culturale si esaurisce. Ovviamente non voglio con questo trasformare una battaglia politica che è stata il più delle volte incredibilmente rozza in una raffinata querelle tra culture di riferimento. Molti (non tutti, ma certamente molti) hanno votato solamente per o contro Matteo Renzi. Detto questo, il referendum del 4 Dicembre viene dopo una serie di altre iniziative politiche (i vari tentativi di riforma costituzionale e di riforma della legge elettorale iniziati con il referendum del 9 e 10 giugno 1991) che hanno caratterizzato il dibattito politico e culturale degli ultimi venticinque anni (un periodo che, essendo nato nel 1976, comprende grossomodo tutta la vicenda politica a cui mi è capitato di assistere). Se si osserva la serie è forse possibile trarne delle considerazioni, anche al di là delle cronache più immediate.

 

Questi venticinque anni sono stati caratterizzati da quello che tenterei di chiamare “paradigma di Mario Segni”, che mi pare di poter sintetizzare in due punti:

a) l’Italia deve essere ammodernata in senso liberale assumendo come modello le istituzioni e la cultura della Gran Bretagna;

b) questa trasformazione può essere indotta – indipendentemente da un progetto politico globale su cui far convergere il consenso – modificando il funzionamento delle istituzioni (modificando anzitutto la legge elettorale e la Costituzione).

Questo paradigma si afferma con la vittoria delle tesi di Mario Segni nel referendum del 1991. A partire da quel momento, tanto la destra (fascisti inclusi) quanto la sinistra italiana (comunisti inclusi) si affannano a definirsi “liberali”. Ma non è questo che qui mi interessa; mi interessa piuttosto la “sovrastruttura”. In questo periodo infatti si determina uno straordinario consenso sull’idea di un ritardo culturale italiano che può essere scientificamente misurato rispetto al meridiano di Greenwich. Si tratta di un’anglofilia tanto più fervente quanto più improvvisa e mal fondata (e del tutto eccezionale nella storia della cultura italiana, che in passato aveva più spesso cercato da altre parti i modelli per la sua indefessa esterofilia). È il “periodo liberale” di Massimo D’Alema, tanto per dare un’idea. Una generazione di intellettuali e politici che era stata abituata che potevano bastare un po’ di francese e dieci parole – possibilmente inutili – in tedesco, di colpo si trova a dover imparare l’inglese. La lingua non la impareranno mai, ma per il resto è una vera e propria conversione. Tutti a leggere Locke e Popper (Karl Popper! Di tutti i maledetti brocchi del mondo, Karl Popper!) Tutti a correre a Londra.

 

Questa mitologia fondatrice – malamente messa assieme da una generazione che aveva da farsi perdonare “Lotta Continua”, “Potere Operaio” e delizie simili e che era pronta a qualsiasi conversione, basta che fosse veloce e consentisse di arrivare alla pensione – viene invece presa dannatamente sul serio da quelli un po’ più giovani. Questi a Londra ci vanno e ci stanno davvero, l’inglese lo imparano bene, si innamorano veramente. Riescono a farsi piacere persino la regina. L’infatuazione è totale e diventa una forma di cecità: aldilà di Londra non c’è niente, niente Cina, niente America, niente Africa, manco la Svizzera, solo Londra. Anche rispetto al tempo non esiste possibile evoluzione: c’è un’età dell’oro, quella di Tony Blair e del New Labour. E questo anche se adesso a Londra Tony Blair è popolare più o meno come Marcello Lippi presso i tifosi dell’Inter. Quel momento resta comunque il vertice più alto della storia della civiltà: il 1994, Tony Blair, il New Labour e Definitely Maybe. Quello, ancora oggi, dobbiamo copiare in Italia.

Poco conta che i tentavi di riforma non abbiano mai funzionato, che il modello sia troppo distante dal caso concreto in cui lo si dovrebbe applicare, che in Italia non ci siano minimamente i presupposti culturali (Fair Play? Non si riesce nemmeno a tradurre credibilmente l’espressione) per poter far funzionare un sistema politico radicalmente maggioritario. Anzi, il modello viene tanto più idealizzato quanto meno si dimostra possibile introdurlo nella pratica (alla faccia del suo supposto empirismo) e diventa egemone nella cultura italiana degli ultimi venticinque anni. Si afferma così un nuovo tipo di intellettuale, quello che nella vita ha visto solo Londra e Monfalcone, ma non per questo non si sente in diritto di insegnare la civiltà a tutti gli altri. La sua missione è portare in Italia la civiltà inglese, in una visone del mondo a cui non si può rimproverare la complicazione: ci sono due punti, uno arretrato e uno progredito. L’adozione delle maniere di quello progredito risolverà tutti i problemi di quello arretrato.

 

Si possono attribuire i due risultati dei referendum del 2006 e 2016 allo specifico contesto politico in cui devono essere collocati, ma se li osserviamo un po’ più da distante – e se li osserviamo insieme, messi in fila e tenendo presente che tra i due passano dieci anni – le successive sconfitte non possono non voler dire nulla. A osservare i risultati dei due referendum pare infatti che almeno una delle due ipotesi sia vera:

a) gli elettori non vogliono che l’Italia sia ammodernata in senso liberale;

b) i legislatori non sono stati per nulla abili a modificare il funzionamento delle istituzioni italiane in senso liberale, pertanto gli elettori hanno rifiutato le loro proposte.

A mio parere la seconda ipotesi è più credibile. Non credo che gli italiani abbiano votato “ideologicamente” a questi referendum (e non credo nemmeno che abbiano votato solo “bestialmente”, anche se certo qualcuno lo ha fatto). Hanno solamente rifiutato un pasticcio. Un pasticcio che era il prodotto di una mancanza di accordo politico e, soprattutto, di un grave difetto di cultura. Le classi dirigenti italiane degli ultimi venticinque anni infatti non hanno avuto né la capacità di trovare un reale accordo politico sulla modifica della Costituzione (modifica che tutti dichiaravano di volere), né gli strumenti culturali per riformarla in maniera almeno tecnicamente convincente (offrendo così in pasto all’elettorato testi talmente scadenti da venir sistematicamente rifiutati persino da un pubblico piuttosto di bocca buona). In altri termini la costruzione intellettuale che reggeva la Costituzione del 1948 si è dimostrata decisamente più solida dei suoi recenti e maldestri tentativi di riforma. In qualche modo l’assenza di respiro di venticinque anni di politica fatta di sola tattica e la miseria di una prospettiva culturale fatta solo di superstiziosa emulazione si sono due volte schiantate contro quello che effettivamente era un progetto politico meditato e solido, per quanto vecchio di settant’anni. Il professore morto non ha avuto difficoltà a prendere a calci nel culo l’asino vivo (e non c’è da rallegrarsene, perché siamo vivi e quindi più simili agli asini).

 

In un certo senso io non capisco perché Matteo Renzi si sia cacciato in questa inutile battaglia. In fin dei conti i trent’anni di fallimenti da cui riemergere non erano i suoi, ma quelli della classe dirigente di cui Renzi si voleva giustamente sbarazzare. Anche quelli che, come me, lo avevano votato, lo avevano votato per togliere i soldi ai nonni e darli ai nipoti (e non per gran sete di giustizia sociale, solo perché i nipoti, c’è qualche remota possibilità che i soldi li investano), per fare che i processi fossero più veloci e per rifare le palestre nelle scuole medie, non per perdere tempo a fare la “grande riforma”. Peraltro, dopo tanti atroci prodotti di ingegneria politica, Matteo Renzi era finalmente un fenomeno politico vero, a cui corrispondevano elettori ed interessi veri, un caso di rappresentanza finalmente piuttosto lineare e convincente. Renzi non aveva nessun bisogno di trafficare con le riforme e le leggi elettorali, i suoi voti non se li doveva inventare. Invece Renzi s’è fatto fregare da Napolitano a fare la riforma che Cacciari e Veltroni e Miglio e Urbani e Fini e Casini e D’Alema non erano riusciti a fare, e ora rischia tutta la sua carriera politica per aver perso una battaglia di cui, nel merito, non gli importava nulla.

Qui però occorre forse tornare alla “sovrastruttura”, al contesto culturale di Matteo Renzi e occorre riconoscere che siamo ancora al paradigma di Mario Segni: Tony Blair e tutto l’armamentario di vent’anni fa. Prigioniero di questa cultura, Renzi non ha avuto scampo: doveva ancora combattere – e ovviamente perdere – battaglie d’altri tempi. Qui non si tratta solo della modestia della sua cultura personale (peraltro la leggerezza con cui ha accettato di intestarsi questa battaglia dimostra una debolezza intellettuale che nessuna furbizia può poi risarcire), ma della modestia, della grottesca insicurezza e della penosa illusione di un’intera cultura, ancora ferma a rincorrere un mondo non meno passato di quello di Fanfani o di Berlusconi o di Carlo V. Questa prospettiva politica, vista oggi, sembra davvero senza sbocchi. Non a caso le avanguardie liberali hanno reagito davvero male alla sconfitta nel referendum. Chissà se riusciranno a farsene una ragione. Speriamo solo che il loro rancore non duri quanto quello dei loro padri.

 

Al referendum hanno votato Sì quelli ancora convinti dal paradigma di Mario Segni, quelli per cui Tony Blair è un leader politico contemporaneo. Hanno votato No gli altri, quelli troppo provinciali per votare Sì e quelli troppo poco provinciali per farlo, quelli che non sanno chi è Tony Blair e quelli che sanno che è passato di moda. Certo quelli che hanno votato No sono un mucchio molto male assortito (anche se questa non è una debolezza politica, ma una semplice condizione logica: non-A è inevitabilmente più indeterminato di A). Di questo gruppo molti sono giovani (secondo alcuni dati di cui non vedo ragioni di dubitare il 68% delle persone con meno di 35 anni ha votato No). Molti di loro non avranno nessuna idea, molti saranno solo arrabbiati, ma credo ce ne siano anche tanti che semplicemente la storia di Tony Blair non la possono più sentire, che non sono convinti che l’unico posto al mondo dove imparare qualcosa sia Londra e che il problema dell’Italia sia di non essere liberale a sufficienza. Penso che questa ipotesi culturale non gli appartenga più, che intendano la globalizzazione semplicemente come un dato di fatto, l’inglese come uno strumento inevitabile e che a partire da questo sano cinismo non abbiano più motivi per votarsi ad un modello unico di civiltà, che sappiano che al mondo ci sono anche il Pakistan e la Polonia, il Messico e il Giappone. A partire da questo internazionalismo scettico – e quindi aperto a una pluralità di possibili modelli – è forse possibile immaginare anche di costruire un progetto di futuro meno intollerante con l’Italia, meno ossessionato da un’unica forma di modernità, allo stesso tempo più pragmatico e più complesso. In fin dei conti i ragazzini hanno votato per tenersi la Costituzione del 1948 che, con tutti i suoi limiti, è pur sempre una prova indiscutibile della possibilità di realizzare un ordinamento capace di essere democratico senza per forza essere liberale. Hanno votato per tenersi il singolare, ambiziosissimo misto di arcaismo e modernità che caratterizza quella Costituzione. Magari sono meno scemi di come li facciamo. In ogni caso non vedo perché dovrebbero aver “rifiutato il futuro”, visto che il futuro che gli veniva proposto era del precedente millennio.

 

In fin dei conti l’unico progetto (politico, economico e culturale) che abbia funzionato in Italia negli ultimi cinquecento anni è stato quello di chi ha scritto la Costituzione del 1948. Ed ha funzionato – aldilà del livello di condivisione ideale e di consapevolezza di chi aveva combattuto assieme i fascisti e di chi aveva ben chiaro quanto fosse provinciale l’Italia visto che nella provincia era dovuto andare a combattere, e aldilà degli aiuti e delle condizioni favorevolissime in cui quel progetto poté svilupparsi – perché era un progetto ambizioso. Perché la Costituzione del 1948 provava ad immaginare un modello di sviluppo basato sulla reale storia del paese, senza farsi illusioni e senza applicare ricette malamente copiate da altri, senza farsi balordi modelli di perfezione, senza essere sprezzante con la povertà della provincia italiana e senza essere troppo schizzinosa rispetto a compromessi ragionevoli.

Io credo che invece di continuare a cercare ogni volta un progetto più elementare del precedente (con obiettivi appena più che bestiali come “sapere chi governa la sera dopo le elezioni”) avremmo bisogno di un progetto (politico ed economico e culturale) più coraggioso, più sofisticato e più indipendente. Venticinque anni di autoproclamata sfiga non hanno fatto bene a nessuno. Basta Tony Blair. Basta Mario Segni. Possibile che nessuno abbia un’idea?

 

 

[Io non ho votato al referendum del 4 Dicembre, e mi è dispiaciuto, ma ero in viaggio. Avrei votato No, non essendo convinto che si possa semplificare qualcosa aumentando la quantità di testo che ne prescrive il funzionamento.

Qualche anno fa, con un piccolo gruppo di amici quasi tutti italiani, ho fatto una rivista di architettura indipendente in lingua inglese. La rivista era (ed è) scritta pensando che non servisse a nulla importare modelli culturali già pronti ma che invece si sarebbe dovuto contribuire ad un dibattito internazionale anche a partire da una tradizione che non c’era motivo di scagliare nel cesso. La piccola rivista ha avuto – all’interno della sua microscopica nicchia – un grande successo internazionale, tanto che ora la chiuderemo perché l’hanno copiata tutti e non serve più a niente.

Io forse sono un illuso ma credo che in Italia si potrebbe essere più indipendenti e più ambiziosi. Io credo anche che, proprio perché l’inglese lo parlano tutti, le culture non anglosassoni sono diventate una risorsa con un incredibile potenziale innovativo. A mio parere l’esercizio di traduzione va fatto nella direzione opposta.]

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