Storia

Srebrenica e l’identità d’Europa

8 Luglio 2019

Tra pochi giorni saranno 24 anni dai morti di Srebrenica.

Lo so che non è un anniversario tondo, ma non importa. Ci sono questioni che quando sono aperte non chiedono di essere ricordate perché la scadenza è quella di un quinquennio o di un decennale (o dei loro fattori di moltiplicazione).

 

Sui Srebrenica c’è stato un silenzio e lungo interrotto solo da chi (e comunque sono sempre state delle minoranze) non ha mai dimenticato o non ha mai fatto finta (tra questi per esempio la Fondazione Langer che proprio su Srebrenica ha costruito e e definito un progetto – Adopt Srebrenica –  che non fosse solo di memoria)  e una maggioranza rilevante di opinione pubblica che ha fatto di tutto per non pensarci.

È una condizione che è durata a lungo. Per la precisione per venti anni. Poi improvvisamente, nel 2015, qualcosa è sembrato muoversi. E per la prima volta i governi dell’Europa sono andati in quel luogo. È stato un atto che non ha aperto nessuna novità. Un atto che avveniva in una condizione di crisi dell’Europa, condizione che oggi è certamente più profonda. L’Europa cercava se stessa, pensava di trovarsi anche lì. Quell’incontro allora non avvenne. Oggi quell’incontro non è nemmeno in agenda.

È per questo che è importante tornare a rifletterci oggi. Non ultimo perché i responsabili di quell’atto, o gli eredi culturali della parte che commise quell’atto oggi non sono nascosti, ma rivendicano il diritto di rappresentare l’anima vera dell’Europa.

Anche per questo allora conviene tornare a rifletterci e riaprire quella pagina di 24 anni fa.

Esattamente come fu 24 anni fa. Per essere precisi esattamente con le questioni che erano sul piatto e sulla scena allora e con i sentimenti che animavano le convinzioni allora, perché quei sentimenti circolano abbondantemente per le strade di Europa, oggi.

Le guerre non nascono perché qualcuno compie un atto, ma perché, a atto avvenuto qualcuno propone di considerarlo come un luogo di diviione del tempo e dunque lo riconosce come luogo di memoria.  Quell’atto rende conoscibile dopo la divisione tra “prima” e “dopo”. Ma è un evento, per quanto memorabile. Dietro si colloca la “lunga durata” che lo rende possibile, plausibile, spiegabile.

Ciò avviene perché la costruzione del nemico rende quell’atto memorabile. Firse rende anche indispensabile ricordarlo.  Ma ciò non avviene sulla qualntità di morti.

Dopo l’11 settembre 2001 siamo entrati in una lunga scia di morte e di sangue che ha avuto molte stazioni di posta con i loro morti. Ma quella scena sta nella nostra memoria pubblica perché abbiamo individuato un attore che la compie. E dunque abbiamo definito un nemico, Non per il numero dei morti.

Per l’opinione pubblica Srebrenica non costituisce ula differenza tra “prima” e “dopo”. I morti erano di più che quelli dell’11 settembre 2001, ma definire il nemico (o anche solo  nominarlo) era imbarazzante. Ciò è avvenuto perché abbiamo guardato quella strage come l’ennesimo atto ripetuto molte volte in quella guerra: una strage di nuclei ristretti, numericamente contenuti (se qualcuno vuol farsi un ripasso è sufficiente riprendere in mano Maschere per un massacro di Paolo Rumiz).

Quell’atto non era restringibile alle lotte di faida. Era molto di più. Era il primo atto di strage di massa di una guerra il cui obiettivo sono i civili. Un aspetto che è cominciato allora e che ancora riguarda le scene di guerra in atto nel nostro tempo.

Ripercorriamo velocemente ciò che accade a Srebrenica nel luglio di 24 anni fa

E’ l’estate del 1995 la guerra che nei Balcani ormai dura da quattro anni sta per concludersi. Bisogna raggiungere sul terreno i patti che i “signori della guerra” (il serbo Milosevic, il bosniaco Izetbegovic e il croato Tudjiman) hanno sottoscritto con il tacito assenso della comunità internazionale: il 51% del territorio della Bosnia ai croato-musulmani ed il restante ai serbo-bosniaci.

Ma la realtà sul terreno non è come una torta che si può tagliare e dividersi le fette. In mezzo a quel territorio ci sono le “zone protette”, enclaves musulmane in un territorio completamente in mano ai serbo bosniaci e sotto protezione ONU. Per raggiungere l’obiettivo occorre eliminarle. Non si tratta di invitare gentilmente i musulmani di spostarsi. Si tratta di mandarli via con la forza.

A lungo si trascina un “tira e molla” ma il 30 maggio del 1995 l’ONU pubblica un documento dove si dichiara che i Caschi blu possono lasciare le “zone protette”. È il segnale che l’operazione si può fare.

Questo hanno come compito gli uomini dell’esercito serbo bosniaco che l’11 luglio entrano a Srebrenica al comando del Generale Mladic, dopo il bombardamento della città iniziato il 9 luglio. È la pulizia etnica. Sul terreno, anzi sottoterra in luoghi sparsi, restano 8000 uomini, gli altri (donne vecchi e bambini), scappano se ce la fanno, altrimenti subiscono violenze e stupri.

Pensavamo, noi in Europa, di esserci lasciati quelle scene alle spalle. Che queste fossero nel passato e soprattutto ai confini dell’Europa: a Katyn, nei territori nebbiosi e freddi della Polonia e dell’Ucraina e lungo i bordi delle molte fosse in cui sono stati sterminati ebrei, russi, polacchi, spesso con la complicità delle popolazioni locali che in quelle scene riversavano odio, invidie, gelosie.

Ci sbagliavamo.

Con altri nomi, quelle storie e quelle vicende, ancora una volta con la complicità e c on l’assenso delle popolazioni locali, sono tornate in quell’estate 1995.

È tornata ad essere vera la scena della caccia singolare e “mirata” all’uomo in base alla sua nascita e alla sua fede. È tornata la scena dello sterminio consumato e realizzato come macchina primitiva in cui si deridono le vittime, si consuma molto alcool per sopportare l’odore del sangue, quello dei corpi che si decompongono, i suoni del pianto, delle urla, delle imprecazioni. Intorno, intanto si violentano le donne, si deridono i vecchi, si abusa dei minori.

Paolo Rumiz in Maschere per un massacro, ci ha consegnato un dossier sulle lunghe scie di sangue di quegli anni nella ex-Jugoslavia su cui noi dobbiamo ancora farci carico per davvero.

Ma in questi anni sono scene che abbiamo cercato di rimuovere o di tacitare. O che abbiamo rivendicato solo per i morti che ci erano prossimi, cercando di eliminare le scene più imbarazzanti.

Bisognerebbe tentare di capire perché.

Si poterebbe osservare come ogni volta nella geografia delle stragi che costituisce anch’essa un modo di scrivere la storia d’Europa e di cui sarebbe istruttivo possedere un atlante storico, ogni volta la figura principale sia il “nemico del popolo”.

Quella figura non si costruisce velocemente, è sempre il risultato di un lungo esercizio retorico, dove lentamente quelle persone concrete non hanno più una fisionomia individuale. Ovvero cessano di esistere come persone, vengono private della loro storia reale e sono trasformate in simboli.

Perciò possono essere cacciate, tolte di mezzo. È una spiegazione, ma non è l’unica. Va comunque supportata con una cosa più concreta.

È sempre difficile elaborare il senso di colpa o costruire intorno a una condizione di contrizione una consapevolezza politica, culturale. Senso di colpa e senso di responsabilità non stanno insieme. La prevalenza del primo fa in modo che non si misuri e non si prenda carico dei contenuti, delle domande e della necessità di fornire risposte incluse nel secondo. Così è ancora oggi per noi.

Nel luglio del 1995 non si è solo ripetuta una scena di codardia già avvenuta a Monaco nel settembre 1938 quando le potenze democratiche europee lasciarono che la Cecoslovacchia si arrangiasse; già avvenuta nel maggio 1939 con il  il disinteresse per la sorte dei profughi della Saint Louis; già avvenuta quando abbiamo manifestato  l’imbarazzato mutismo rispetto all’appello di soccorso che Radio Budapest lanciava a noi nella mattina dei primi novembre del 1956. Lì, in quei giorni, tutte quelle volte, è anche morto un pezzo di Europa.

L’Europa come progetto di società aperta è morta sulle colline della Bosnia Erzegovina quando ha deciso nei fatti che una parte dei suoi popoli non erano degni di difesa. Che i musulmani di Bosnia, abitanti in Europa da molti secoli, non erano suoi cittadini, che la loro vita non era un pezzo della sua storia.

A Srebrenica ci siamo dimenticati dei morti perché era imbarazzante e problematico individuare e nominare il nemico. Quella scena era prima dell’11 settembre 2001, ma ce la siamo raccontata come l’ultima scena di una guerra primitiva, l’ultimo esempio di Medio Evo in Europa. Perché era più facile. Perché riduceva tutto a una estenuante guerra tra tifoserie avversarie. Una roba da domenica da stadio.

È accaduto questo a Srebrenica?  Anche volendolo spiegare così, in realtà è accaduto qualcosa di molto più radicale. Non alle vittime e agli sterminati, ma a noi che eravamo gli spettatori della scena dello sterminio. Qualcosa che ancora facciamo fatica a individuare e, conseguentemente, a nominare.

Almeno due cose, credo che ci riguardano.

La prima. Chiediamoci per quella scena non è passato, anche, un lento distacco tra mondi che oggi dicono di combattersi in nome di una “Guerra di civiltà”. Sarebbe bene domandarselo, perché, appunto le guerre si costruiscono su simboli, su retoriche dove i civili sono le prime vittime.

In quella guerra ciò accadde con insistenza e più volte. È per questo che non era l’ultima guerra tribale ma l’avvisaglia circostanziata e territorialmente definita di una nuova guerra, quella in cui siamo immersi oggi. Quella della guerra ai civili.

La seconda. Quando nel maggio del 2011 è stato catturato Ratko Mladic, molti, ricordando lo sterminio di Srebrenica del luglio 1995, hanno detto che Srebrenica ci aveva «rivelato» Auschwitz. Ne dubito. Noi di fronte a Srebrenica abbiamo scoperto un’altra cosa, ma non siamo in grado di dirlo perché dovremmo fare i conti con il disagio della memoria.

Srebrenica 9-11 luglio 1995, è la dimostrazione che sapere che sta accadendo qualcosa, vederlo persino, non impedisce che quella cosa non solo sia possibile, ma che avvenga. E soprattutto abbiamo scoperto che dopo, noi, non i carnefici, siamo ancora in grado di vivere senza sentire la vergogna. A Srebrenica, in breve noi abbiamo scoperto, ma non siamo disposti ancora a riconoscere, che non è vero che lo sterminio avviene perché nessuno lo sa e che se avessimo saputo, non sarebbe potuto avvenire. Ma che lo sterminio avviene, lo vediamo in diretta e complessivamente continuiamo a pensare che sono “fatti loro”. Comunque a voler essere diretti,  a noi quella scena cambiava poco, non ci riguardava direttamente. Forse è lì che ha la sua prima fase di incubazione la convinzione che l’Europa si costruisce dicendo “Prima noi”.

Srebrenica luglio 1995, uno sterminio che è avvenuto  in un giorno di lavoro, (per la cronaca era martedì) e  a poca distanza da qui, costituisce un evento ineludibile per riflettere sul senso della memoria e sulla sua funzione. Non era la prima volta. Quindici mesi prima era già avvenuto in Rwanda. Anche allora era prevalso il silenzio.

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.