Partiti e politici
Siamo in transito
” Intanto c’è un fetore di cacca di infante.
Io sono drogata e intontita dall’ultimo tranquillante. Fumo di pentole, fumo d’inferno,
sommerge le nostre teste, due opposti velenosi,
le nostre ossa, i nostri capelli”
È terminato Natale, le sue luci fittizie, quelle che sanno di allegria forzata perché bisogna rinascere. Bisogna farsi regali, e che siano utili o costosi, l’allegria delle vetrine nasconde i mancati incassi, il rosso propiziatorio di un nuovo anno imperversa. Vietato essere tristi sembra sia scritto ovunque. Le mascherine aiutano a nascondere un sorriso che stenta ad essere accennato. Si postano foto su fb di pranzi luculliani, tutto sembra perfetto come in quelle pubblicità in cui le casalinghe sono sempre in ordine, ben vestite e tacchi alti contente di fare le pulizie.
Si ritorna alla vita quotidiana, il grigiore bussa nuovamente alle nostre porte, trova spazio e si fa strada nelle nostre giornate, le nostre vite ci appaiono nuovamente nella nostra imperfezione, la baldoria non copre più le nostre malinconie. I nostri sbagli, il fardello di cui non siamo riusciti a liberarci, le strade intraviste e abbandonate, il nostro se incompiuto si ripresenta, ospite non gradito. Quei semi in potenza che premono urgentemente sotto pelle ci fanno dolore, ci fanno trascinare le giornate, ci fanno sopravvivere morendo lentamente, ci tengono immersi in una letargia che divora il nostro smalto. Sembriamo più vecchi, affaticati, a leccarci cicatrici che ci ostacolano e ci vietano di apprezzare i piccoli miracoli che si incontrano sul nostro cammino. Spesso viviamo quello che non siamo più, che non ci appartiene, ancorati come cozza ad uno scoglio perché essere aggrappati al dolore ci dà ancora la sensazione di esistere. Doloranti, ma vivi. Il transito verso una condizione di non esistenza, o di proiezione verso una nuova esistenza ci fa sentire vuoti, instabili, un albero sradicato.
Non siamo mogli, madri, non apparteniamo se non al passato, siamo figli, sorelle, prendiamo in prestito affetti, adottiamo i nostri nipoti a tempo determinato, il nostro tempo ha sempre una scadenza, un albero senza ombra, non c’è proiezione di noi. Nessuno ci accoglie nei momenti di solitudine, puoi confortare, ma non essere confortata.
Ma forse esistono percorsi diversi per ciascuno di noi, c’è chi nasce per generare figli, chi nasce per generare altro: l’affetto ad esempio delle persone che incontra, dei volti che ci sono conosciuti.
Conoscere, nel significato più ampio e filosofico, apprendere e ritenere nella mente una nozione, Nell’uso ha però un più concreto valore semantico, e può indicare i varî gradi della conoscenza, dall’iniziale percezione dell’esistenza di una cosa alla cognizione piena del suo essere, dei suoi modi e qualità.
L’usura delle categorie politiche moderne dipende da una presunzione tipica del realismo politico, che è quella di pensare la politica come una scienza oggettiva. Il principe di Macchiavelli è un grande tratto di antropologia politica.
L’antropologia politica è lo studio comparato delle modalità con le quali le diverse culture politiche hanno affrontato e risolto i problemi dell’acquisizione, concentrazione e diffusione del potere politico, della creazione e del mantenimento dell’ordine politico, del controllo e del dispiegamento del conflitto. Risale alla metà del 19° secolo, ai grandi affreschi di alcuni storici sociali e giuristi e ad alcuni importanti contributi di E. Durkheim. La grande innovazione introdotta da questi studiosi consiste nel riconoscimento dell’esistenza di tre tipi di società: statuali, senza stato e organizzate per bande. Si afferma, inoltre, che anche se non vi è un governo, sono sempre presenti strutture che svolgono funzioni politiche. E si rileva che le società primitive sono organizzate su base di parentela oppure su base territoriale.
C’è un episodio della storia politica che narra quanto possa essere importante intrecciare la scienza politica con l’antropologia politica. Si trova nelle pagine del Testamento di Lenin.
La Lettera sarebbe stata dettata da Lenin, reso invalido e incapace di scrivere a seguito di un ictus cerebrale, alla sua stenografa Marija Volodičeva, tra il 23 e il 26 dicembre 1922, durante il soggiorno nella casa di cura a Gorkij.
Nella prima parte del testo indica la necessità di aumentare l’effettivo del Comitato Centrale facendovi entrare operai e contadini, continua poi con una nota in cui Lenin avrebbe proposto esplicitamente al Congresso la rimozione di Stalin, giudicato “troppo brutale”, dalla carica di segretario generale del partito. Considerava Stalin “troppo grossolano, e questo difetto, del tutto tollerabile nell’ambiente e nel rapporti tra noi comunisti, diventa intollerabile nella funzione di segretario generale. Perciò propongo ai compagni di pensare alla maniera di togliere Stalin da questo incarico e di designare a questo posto un altro uomo che, a parte tutti gli altri aspetti, si distingua dal compagno Stalin solo per una migliore qualità, quella cioè di essere più tollerante, più leale, più cortese e più riguardoso verso i compagni”.
Se la politica moderna si è pensata come scienza oggettiva, basta leggere la Repubblica di Platone per risalire a una fonte di antropologia politica. É qui che troviamo la discussione sulla forma migliore di organizzazione del potere come oggetto della scienza politica che si accompagna a un’attenzione verso tutte le dimensioni dell’umano.
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