Geopolitica

Shimon Peres, quando anche i perdenti potevano fare la storia

28 Settembre 2016

“Ho capito che le colonie non ti piacciono e noi coloni ti stiamo sulle palle. Ma lo sai chi ha firmato, da ministro, questo insediamento? Quell’ipocrita di Shimon Peres!”. Edoardo, ebreo italiano partito dall’estrema sinistra europea e approdato all’estrema destra israeliana mi guardava con aria di sfida, o forse solo di sufficienza, indicandomi dall’alto di una collina le vallate di Giudea. Alle nostre spalle una piccola colonia che diventava mese dopo mese più grande. Tutt’attorno piccoli villaggi di palestinesi. Un pugno di terra pieno di sassi, l’aria calda del deserto, a una ventina di chilometri da Gerusalemme ma già nel pieno dei territori occupati da Israele dopo la vittoriosa guerra del 1967.

Chi era Shimon Peres? Era l’uomo che aveva provato testardamente a costruire la pace perduta con la morte di Rabin? Era uno dei responsabili delle politiche di colonizzazione rivendicate da un colono italiano, proprio nei giorni in cui il falco Sharon decideva il ritiro da Gaza? Era l’unico importante politico del novecento israeliano che non veniva dalla carriera militare, se non come “episodio” iniziale di un percorso da diplomatico? Era tutte queste cose insieme, era la grandezza e la tenacia della politica e la fatica di difendere il compromesso e la contraddizione, anche dalla tentazione – umana – di non sparire e di non essere dimenticati. Era il Novecento che perde, con lui, uno degli ultimi grandi testimoni degli epocali movimenti politici che lo hanno attraversato, segnando lotte di emancipazione e passi indietro, vedendo da vicino l’orrore e provando a sconfiggerlo con l’utopia o le riforme.

Avremmo detto, una volta, che con Peres se ne va uno degli ultimi esemplari di politica ragionata, di azione che sa cambiare tono e idea col cambiare del clima che sta attorno, di pragmatismo capace di reggere l’accusa di incoerenza perché sa, invece, che coerenza non è sinonimo di sclerosi. La stessa parabola di un grande avversario, di un suo vero nemico, anzi, come Ariel Sharon: con cui sul finire della vita e della carriera Peres si trovó poi a combattere, ma finalmente dalla stessa parte della barricata.

Questa storia ha iniziato invero a finire oltre 20 anni fa quando, ancora caldo il cadavere di Yitzhak Rabin fu Simon Peres a raccoglierne il testimone e l’eredità e lo scranno, lo uso per alcune dure repressioni militari che dovevano mostrare che la sinistra non ha certo paura delle maniere forti, e finì poi per consegnare il paese a quel Benyamiin Nethanyahu che ancora oggi lo governa. Fu forse in quel passaggio, nella primavera del 1996, a segnare un tempo e una storia di cui, come altre volte, il mondo a parte dello stato d’Israele è stato in realtà avamposto di molte cose destinate a succedere poi anche altrove, anche da noi. Shimon Peres subì infatti, a quelle elezioni, l’ultima sconfitta di una carriera che lo vide quasi sempre perdente negli scontri diretti. Perdente da Rabin, molte volte, dentro al loro partito, il partito laburista israeliano. Perdente dalle destre. Perdente eppure sempre “utile” alla causa, se proprio Rabin ogni volta lo sconfiggeva e poi gli chiedeva di diventare ministro – degli Esteri, di solito – e se anche la nuova Israele, ormai “liberata” dai padri fondatori laburisti ha avuto bisogno di lui, presidente e padre nobile di lunghissimo corso.

Se ne andava quel giorno, e non oggi che è morto, una politica fatta di questioni epocali da affrontare con l’occhio lungo, lo sguardo paziente, la tenacia di saper perdere e di non disperare, la fiducia nella lealtà minima di avversari e nemici, il senso della storia che tutto tiene insieme, la ragione di partito che, nel senso più alto, sa coincidere con quella di Stato. Gli errori e i meriti di Peres, i piccoli passi e le frenate, sono consegnate per sempre alla storia. Come alla storia resta l’uomo che seppe stringere la mano ad Arafat, nonostante tutto; che seppe sempre riabbracciare Rabin, nonostante molte distanze e qualche fiele; che seppe camminare con Sharon, pensando che il futuro della pace poteva anche passare di lì. Un uomo che, insomma, seppe praticare il compromesso e le ragioni dei decenni contro quelle dei giorni. Una lezione, questa sì, che non dovremmo perdere anche noi, soprattutto noi che abbiamo ancora un dovere di futuro, anche se non potremo mai più ascoltarla dalla voce di Shimon Peres.

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