Partiti e politici
Seniga e l’oro di Mosca
Il 25 luglio 1954, la fortezza comunista è investita da uno scandalo assolutamente imprevedibile.
Giulio Seniga, segretario dello storico dirigente Pietro Secchia, e forse anche qualcosa di più, lascia il partito portando con sé documenti riservatissimi e, soprattutto, la cassa del partito, il cosiddetto “oro di Mosca”.
Il partito accusa il colpo ma si astiene dal formulare una denuncia per evitare di dovere rendere conto della somma rubata e della sua provenienza nonché il contenuto, anche di massima dei documenti segreti sottratti.
A pagare fu proprio Pietro Secchia, allora n° 2 della nomenklatura comunista e fautore della insurrezione armata, che perdette gran parte del suo prestigio venendo sostituito negli incarichi di responsabilità fino ad allora occupati da Giorgio Amendola.
Particolare significativo nell’autocritica, che Secchia è costretto a fare, riconosceva addirittura di “non essere tagliato per la politica”.
Giulio Seniga, il cui curriculum era particolarmente interessante essendo stato un militante di primo piano e un valoroso partigiano, non era un semplice segretario esecutore di ordini superiori ma un personaggio di un certo spessore morale che, nel corso degli anni, si era posto molte domande sul partito e sul contributo che lo stesso avrebbe potuto dare alla crescita democratica e civile del Paese.
Domande che, lentamente, l’avevano portato ad allontanarsi dall’ortodossia e che stanno a monte del suo gesto. Seniga, non è il ladruncolo che scappa con il malloppo, in una lettera a Secchia e ai compagni della segreteria spiega infatti i motivi di quel gesto clamoroso.
Egli, infatti, afferma che “I quadri del partito sono dominati dall’opportunismo, dall’ambizione, dal conformismo e dalla paura. La vigilanza rivoluzionaria è stata trasformata in una vigilanza di polizia preoccupata soltanto di soffocare e controllare ogni voce di critica o di dubbio sulla politica del partito e sulla pretesa infallibilità dei dirigenti.
Nel partito regna l’acquiescenza e l’omertà verso atti di indisciplina morale a volte molto più dannosi di quelli di indisciplina politica.” Ed aggiunge, ancora, “Vige nel partito il gerarchismo nel tratto e nelle abitudini l’infatuazione cieca e il culto meschino e servile dei dirigenti. Nessun controllo e autocontrollo è rivolto al costume di vita dei dirigenti e parlamentari ed ai limiti della loro partecipazione alle abitudini e alle consuetudini di vita della società borghese. Ciò espone il fianco alla facile speculazione qualunquista che i capi sono tutti uguali”.
La sua critica alla sudditanza a Mosca e a Stalin, è ancor più feroce e gli vale quell’espulsione dal partito che, fino ad allora, non era stata decisa.
Seniga, delle somme sottratte, non fa un uso personale ma le impegna per finanziare l’opposizione al PCI togliattiano, fondando Azione Comunista, che critica da sinistra il PCI, scoprendo le magagne dello stalinismo ancor prima che venissero denunciate nel corso del XX Congresso del PCUS.
La sua è una battaglia a tutto campo che non esclude gesti clamorosi come quando “il 17 giugno 1958 si introduce, con la sua compagna Anita Galliussi, già segretaria di Togliatti al Komintern, nell’Aula parlamentare e assieme fanno cadere sulle teste dei deputati una pioggia di volantini che denunciano la responsabilità del PCI con il partito comunista ungherese.”
Seniga non si ferma e denuncia a livelli sempre più alti quello che finisce lo “stalinotogliattismo” responsabile delle indegne repressioni, non solo dei nemici del comunismo ma anche di comunisti poco ortodossi e di anarchici come era già avvenuto, con cinismo e spietatezza, in Spagna negli anni della guerra civile.
Le sue denunce, anche se non intaccano il tessuto tetragono dei tanti dirigenti educati alla rigida logica del partito, offrono spunti per una corretta critica al partito e alle sue scelte, come quella di schierarsi contro Israele, che Seniga considerava poco corretta.
Togliattiani e post-togliattiani, che l’hanno messo all’indice, non potendolo attaccare sul piano della dirittura morale, adottano nei suoi confronti la strategia dell’indifferenza, quasi si trattasse di un povero pazzo a cui, per carità di patria, era meglio non rispondere. Una strategia che, alla lunga, ottiene i suoi risultati visto che, nella memoria collettiva generale, il nome di Giulio Seniga è stato radicalmente cancellato.
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