Storia

Se la squadra è squadrista ogni gruppo è fascista

11 Gennaio 2021

Ultimamente pare il mondo sia tutto un brulicare di animosità, di svolte epocali all’orizzonte, di tentativi di sovvertire e superare istituti sociali, politici ed economici considerati ormai disfunzionali e cancerosi. Ogni manifestazione del divenire sembra venir letta secondo categorie interpretative che ripropongono da un lato schemi arcaici se non archetipici di decodifica del mondo, come lo scontro duale tra modelli antagonisti quali vita e morte, luce e buio, bene e male, e dall’altro schemi tipici del primo Novecento abbondantemente indagati e comunque non superati nel secondo, quali il “mito della rivoluzione” e la categoria semantica e psicosociale di “massa”, da cui la società di massa, i consumi di massa, la politica di massa, o per la massa…

Nel primo Novecento, durante l’intervallo tra le due guerre mondiali, lo scontro duale tra modelli antagonisti era incarnato da capitalismo e bolscevismo, che si contrapponevano sostanzialmente in termini di libero mercato e economia pianificata, ma non solo. Il marxismo intanto aveva affrontato il tema della lotta di classe definendolo motore della storia, mentre l’ultimo trentennio dell’Ottocento vedeva sorgere l’ideologia nazionalista e un diffuso antiparlamentarismo motivato in parte dalla critica all’oligarchia del potere e la passivizzazione delle masse, e in parte da ragioni elitariste e antidemocratiche eventualmente autoritarie.

 

Ai primi del Novecento si diffuse il “sindacalismo rivoluzionario” elaborato da Sorel che,superando il partito politico, esaltava il potenziale autonomo delle masse lavoratrici.

Dunque in un contesto di antiparlamentarismo, lotta di classe, sindacalismo rivoluzionario, nazionalismo, secondo colonialismo e imperialismo, la nazione come entità che precede lo Stato -ricordando Herder secondo cui i popoli sono individualità create da Dio- , era in perenne e darwiniano conflitto con altre nazioni, e l’esito della lotta era determinato dalla forza sprigionata dall’unità del suo popolo, in contrapposizione biologica e antropologica con la forza altri popoli. Scrive infatti Collotti che in ogni nazionalismo è insito un certo razzismo.

L’unità del popolo era ed è però in ultima analisi, la coesione della massa derivata sostanzialmente dell’idea di una qualche forma di comunanza, e già in F.L. Jahn e Ficht uno dei riferimenti a quella comunanza, è perfino alla “purezza della razza”.

L’idea di una lotta di classe tra appartenenti allo stesso popolo, al pari del parlamentarismo talvolta paralizzato dai conflitti tra partiti, si esprimeva quindi come forza disgregatrice dell’unità nazionale, impedimento concreto al convogliarsi delle forze sociali in forza d’urto compatta contro altri popoli e nazioni.

 

Il nazionalismo ha pertanto rifiutato la lotta di classe, e in Italia, Mussolini ha parlato in termini antimarxisti di “conciliazione sociale” tra capitale e classe operaia.

Questa “prospettiva rivoluzionaria” della conciliazione, detta anche “terza via” e assunta in funzione della potenza della nazione, è stata poi perseguita con l’adesione forzata al “credo fascista”, con la soppressione di ogni autonomia e pensiero divergente, con l’omologazione anche violenta delle masse. La parola “fascio” indicava proprio l’insieme compatto di singoli fuscelli, denotando il valore corporativistico assunto dal concetto di pluralità, ovviamente deprivata da pluralismi: una moltitudine ad uso e consumo della volontà di potenza della nazione. Dallo squadrismo alla nascita del partito unico, fino ai riti e i miti di una vera e propria religione politica, l’educazione delle masse tramite circonvenzione, indottrinamento, irreggimentazione, demonizzazione del “non conforme”, fino al disagio e al pericolo dei singoli di rimanere esclusi da una “comunità ideologica” e in virtù di questo diventare il “nemico”, un ruolo essenziale nella concezione totalitaria della politica e dello Stato è spettato proprio alla produzione del consenso interclassista e del fideismo anticlassista.

 

L’individuo in quanto entità singola e indipendente soccombe all’idea di collettività, e l’unione diventa il mezzo per generare la forza!

L’aggregazione quindi, a dispetto di ogni eventuale buona intenzione e di ogni razionale discernimento, ha funzione psichica e agisce nel dominio dell’irrazionale. Galvanizza gli aderenti facendo leva sulle pulsioni, produce la riduzione schematizzata del “con o contro” nell’obbligata rinuncia ai “se” e ai “ma”, e rifugge con ogni mezzo livelli anche minimi di conflittualità “interna” in favore della “massima” conflittualità esterna.

Quando ancora nel ventunesimo secolo si parla di “discriminazione delle minoranze”, si dice infondo che nonostante l’impianto pluralista, anche in democrazia la quantità gioca ancora un ruolo essenzialmente coercitivo e che la massa, anche se intesa come maggioranza e non come totalità a uso e consumo del regime, in forza del suo darsi come “fascio” ha potere effettivo di condizionamento di chi non le si omologa e le resta estraneo.

In questi termini, se come su detto ogni nazionalismo implica razzismo, anche ogni tentativo di costituirsi “gruppo” implica una qualche latenza di fascismo nei confronti di chi a quel gruppo o categoria non appartiene del tutto, o non appartiene affatto. In questa dinamica, pur senza chiamare in causa l’esplicito ricorso alla violenza fisica, o la normalizzazione dell’annientamento di oppositori e avversari, l’identità si configura in negativo per contrasto ad identità altre, magari minoritarie, e magari “illegittime”.

 

Probabilmente invece, abbandonando l’idea di gruppo come insieme di individui coesi dalla forza spontanea o indotta di una qualche presunta o effettiva comunanza, si eroderebbe lo spazio di prevaricazione praticabile dalle cosiddette “maggioranze”.

Forse, senza mettere in discussione la natura “sociale” dell’essere umano che è alla base di ogni concetto di “civiltà” e perfino di “cultura”, dovremmo prospettate non la lotta di classe, fondata sulla divisione in categoria e l’estremizzazione del conflitto tra categorie, né tantomeno la conciliazione sociale intesa come potere totalitario di un’entità fisica, psichica, antropologica o politica sulle categorie tutte, ma il superamento della necessità di confluire dentro il perimetro stretto di qualsivoglia categoria o gruppo, riappropriandoci delle singolarità.

Ogni individuo subisce infatti forme più o meno intense di “spersonalizzazione” in rapporto alla sua generale appartenenza alle categorie collettive di riferimento, e viene a trovarsi costretto e annullato, del tutto o in parte, entro la rappresentazione arbitraria e parziale, ma anche stereotipata e ineludibile, del gruppo cui per forza o buona voglia appartiene.

 

La stereotipizzazione è di fatto una pratica di rimozione progressiva delle diversità, e imposizione progressiva delle similarità fino al pervenimento, tramite riduzione e imposizione, ad un’insiemistica basica omogenea e omnicomprensiva. La stereotipizzazione non è solo una modalità della narrazione, ma un effettivo tentativo in fieri di omologazione.

Attualmente ad esempio, guardando ai conflitti sociali in essere, si osservano ancora stereotipizzazioni che postulano sempre e solo l’esistenza di un gruppo, una categoria, una condizione o un’ideologia, e per comparazione negativa, dei loro opposti, costituiti da chi a quel gruppo, categoria, condizione, ideologia, non appartiene: bianchi o neri, nativi o migranti, ricchi o poveri, eterosessuali o omosessuali, scienza ufficiale o teorie complottiste, e così via.

In pratica ogni qualvolta si forma un insieme, chi non vuole o non può confluirvi giurando di “credere, obbedire e combattere” è letteralmente, al netto dei grigi negati e dello spirito critico demonizzato, l’opposto, l’anomalia, l’aberrazione, il nemico; l’incarnazione del male, di ciò che viene rifiutato, disconosciuto, o perfino combattuto.

 

Eppure, mi sembra assolutamente evidente che le differenze specifiche tra individui siano almeno tante quante le analogie per cui due o due miliardi di singoli si aggregano. Se volessimo ostinarci ad utilizzare categorie come i neri, i migranti, i musulmani, i ricchi, gli omosessuali, i dipendenti pubblici, gli imprenditori, i drogati, i politici, i giovani, attribuendo a questi macro contenitori la facoltà di omogeneizzare l’eterogeneo, cosa esattamente staremmo facendo se non costruire narrazioni così parziali da risultare falsificate sulla qualità o la natura degli individui che in quelle categorie si ricomprendono?

Ogni volta che si utilizza una categoria per dedurre e attribuire -generalizzando- a chiunque vi “appartenga” un giudizio o millantare una presunzione di conoscenza della persona, si rinuncia alla logica e irrazionalmente, si inventa. Anche se dicessimo ladri e assassini dovremmo operare dei distinguo, anche per finalità che nulla hanno a che fare con il giustificazionismo, il garantismo e l’apologia.

Condividere una condizione fisica o giuridica, un’idea o un’esperienza, una competenza o un’esigenza, un impegno o un interesse, non presuppone mai l’identità e non giustifica in nessun modo supporre l’omogeneità o pretendere l’omologazione. Soprattutto non obbliga a “fare gruppo”, o “quadrato”.

 

Dovremmo abbandonare l’abitudine a servirci troppo spesso o troppo sommariamente di “categorie”, e anche quella di “creare gruppi”, perché proprio nell’omnicomprensivo, si disconosce, si discrimina e, seppure è una contraddizione in termini, si esclude. Di fatto si rinuncia alla complessità.

Il gruppo per altro difficilmente prescinde dal “mito del capo”, su cui tanto ci sarebbe da dire stando proprio alla storia e ai fascismi, e non credo di averne mai visti di veramente orizzontali. Dunque una latenza di fascismo si esprime non solo verso chi non è membro e dunque verso l’esterno, ma anche internamente in termini di gerarchia.

Chi ne ha avuto esperienza può ben testimoniare, anche se forse non vuole, di come l’allineamento anche solo imperfetto venga il più delle volte interpretato come sospetto e pericoloso, una frattura che può generare disgregazione, un tradimento, un attentato.

Eppure è così frequente condividere i fini ma non i mezzi, o ancor più usare stessi mezzi per differenti fini. È così frequente concordare sulla ragionevolezza delle cause ma non sugli strumenti e le modalità delle rivendicazioni. È così frequente che la linea netta tra il bianco e nero venga inficiata nel suo andamento rigido da sfumature importanti, e che non riesca più a demarcare confini!

 

I confini sono l’ossessione del contemporaneo, il tentativo illogico di arrestare gli andamenti, fisici, psichici e intellettuali. Forse rispondono all’esigenza legittima di sistematizzare, ma sempre più spesso l’effetto che producono è quello di derubricare, costringere e mistificare!

Come i contorni sul foglio bianco creano disegni riconoscibili, le categorie in una mente vuota hanno la funzione di una griglia: predispongono lo spazio e il significato. Il disegno come rappresentazione del reale ha molti livelli, dalle sagome maschili e femminili alla toilette, ai ritratti iperrealisti. Interessante è osservare che la differenza tra loro degli innumerevoli stadi tra i due poli, è data dallo scomparire delle linee nette e il comparire della texture. Anche il più fotografico dei ritratti a matita muove da una griglia elementare, ma perviene alla realtà attraverso quanto più sa investigare in quei luoghi tra un’ascissa e un’ordinata.

E i gruppi sembrerebbero proprio la campitura monocroma della proiezione ortogonale di un punto P. Un quadrilatero omogeneo, piatto, senza sfumature e senza texture: un’irrealtà, o ben che vada un simbolo.

Monica Scafati

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