Storia

Saranno ancora i libri di storia e gli storici a raccontare la storia?

25 Marzo 2015

Domani sera, 26 marzo,  in Fondazione Feltrinelli (Milano, Via Romagnosi 3) alle ore 18.00 con Paolo Rumiz e Carlo Greppi discuteremo su chi racconta la storia e su come la si racconta.  Ci chiederemo se i testi di letteratura, di inchiesta, e i fumetti, i film, siano i veicoli che oggi raccontano la storia e se i libri di storia e gli storici siano oggi dei marginalizzati e dei marginali nel racconto pubblico della storia.

Il tema è affascinante. Lo discuto e ci voglio riflettere da storico, da lettore di libri. In questa vicenda sono dunque parte in causa. E’ proprio perché il futuro del libro mi interessa così come mi interessa la “buona salute” del mio mestiere che credo abbia senso discuterne.

C’è stato un tempo in cui gli storici avevano una funzione pubblica, anche in forza della loro competenza professionale. Come diceva Churchill “Più puoi guardare indietro, più puoi guardare avanti “ (“The longer you can look back, the further you can look forward.”). La competenza storica serviva.

Quel tempo è passato. Gli storici hanno cessato da tempo di essere per davvero dei personaggi pubblici. Eppure la storia, la narrazione del passato gode di una salute invidiabile. Ma quella narrazione né la costruiamo né l’assembliamo noi storici.

Qualcuno sostiene che dipende dal fatto che da tempo gli storici hanno abbandonato la grande scala temporale come elemento significativo. Così per esempio Jo Guldi e David Armitage in The history manifesto (Cambridge University Press; il testo è anche scaricabile gratuitamente dal web a questo indirizzo)
C’è del vero. Ma non basta.
Da tempo in Italia la storia non la raccontano più gli storici e non la raccontano i libri di storia frutto della ricerca storica. Questa sembra la situazione. A essere precisi si potrebbe dire che anche questa è una generalizzazione impropria che liquida la questione, la dà per risolta, ma in realtà non dice tutta la verità.
La verità a me sembra un’altra.
La storia ha bisogno di coinvolgere nel racconto. Quel racconto nel momento in cui racconta la storia, è esigente, è ricco di dati, di nomi, di circostanze, di date, di emozioni. E’ un racconto che può trasudare conoscenza documentata, che trasmette non attraverso il libro di storia.
Due esempi molto lontani tra loro

Il primo. Forse nessuno meglio di GIPI (Gianni Pacinotti) con Unastoria (Coconino Press) ha raccontato cosa è recuperare il passato, come lo si va a cercare, che cosa si scopre nel passato del proprio nonno in trincea, quali parole, sogni e angosce, popolavano la generazione di quelli sbattutti in trincea e come e attraverso quali percorsi quelle parole, emozioni, sensazioni, gesti  parlano a noi. Esattamente settanta anni dopo Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, o cinquant’anni dopo Orizzonti di gloria, la Prima guerra mondiale esce dal suo alveo e si consegna a noi lettori, attraverso le forme del fumetto, la visione e la percezione del vivere lo stress da guerra. E lo fa attraverso un modo narrativo che noi storici non abbiamo mai intrapreso.

Il secondo. Chi potrebbe sostenere che Vajont 9 ottobre ’63 – Orazione civile (Einaudi) sia solo un monologo teatrale e non sia, anche e soprattutto, un testo di storia?
E che cosa racconta quel testo? Solo una tragedia ambientale? Non racconta anche, forse e soprattutto, una storia sociale, una storia economica, una storia del rapporto tra governati e governanti? Quel testo è forse il più bel libro di storia economica, sociale, culturale di come l’Italia ha rincorso senza regole il processo d’industrializzazione. E’ solo grazie a Marco Paolini che qualcuno ha ripreso in mano gli scritti di Tina Merlin, una che non la voleva ascoltare nessuno e che inutilmente per anni si batté per fermare una catastrofe annunciata. Ma anche dopo, per trenta anni, nessuno di lei ha voluto parlare. Semplicemente perché parlare di lei, voleva dire parlare di noi senza possibilità di scusanti.
Paolini non è uno storico. Ma è andato in cerca di fonti e ha chiesto fonti a chi sapeva come e dove trovarle.

Quel testo teatrale nasce dunque sulle fonti. Ma poi la sua  narrazione non precipita in un libro di storia. Tuttavia,  meglio di un libro di storia, quel testo  è capace di parlare a noi ora: a quelli che quel 9 ottobre  1963 c’erano, anche se adolescenti o bambini, sia che fossero sotto il Vajont o in una qualsiasi città italiana di fronte a un televisore a vedere qualla enorme massa d’acqua in moto; a quelli che nel 1963 non c’erano e che ora hanno 2o anni. Vajont è un testo di storia che non è un libro di storia che parla a una generazione che ha bisogno di “sentire” il fatto. In questo caso “sentire” non è equivalente a “mentire”, o a “falsare”. Vuol dire “prendere la misura” delle cose.

In tutte e due i casi si può dire che la storia si sia perduta? Che sia rimasto solo uno story-telling indifferenziato?
In tutti e due i casi noi auditori/lettori con le nostre competenze scarne o alte, sapendo poco di storia, oppure credendo di saperne parecchio, anche di quelle storie specifiche, siamo usciti più ricchi da queste due narrazioni.

Questo non significa che noi storici non abbiamo più una funzione. Significa che il modo di costruire narrazione storica ha subito delle trasformazioni e si tratta di pensarsi come una competenza che cooperativamente aiuta a costruire una narrazione.

La conoscenza del passato è un “bene comune” da non perdere. Per non perderlo dobbiamo anche prendere in carica la metamorfosi del racconto del passato e vivere questa metamorfosi non come un tradimento, un “venir meno”, ma come una chance.

A chi chiede se la storia la racconteranno ancora i libri e con sgomento si domanda se la racconteranno ancora gli storici di professione. dobbiamo noi storici, rispondere che la narrazione della storia, senza decampare dai documenti è possibile, anzi è anche auspicabile e che ci sono molte forme della narrazione documentata.

Il bisogno di narrare e raccontare il passato non si ferma. Possiamo decidere, noi storici che quella forma non è la nostra e dunque rifiutarci di collaborare. Ma la storia e il passato non per questo smetteranno di essere raccontati. E anzi, come capita spesso, con coinvolgimento maggiore senza che vadano perduti sia la fondatezza del racconto sia l’offerta di sapere documentato. Certo, talvolta, ci imbatteremo in un’offerta di qualità scarsa o, addirittura, pessima.

Questo dato dimostra solo che la partita è aperta. Il livello dell’offerta dipenderà anche se noi storici decideremo di esserci anche nella costruzione dell’offerta narrativa del passato nelle varie forme in cui oggi si costruisce il suo racconto e lo si comunica. “Accanto al” e “oltre il” libro di storia. Soprattutto,  non da soli.

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.