Storia
San Sabba e Basovizza, la memoria viva del dolore
Ci sono città di confine. Di confine e dolore.
Ci sono città in cerca di una memoria diversa. In cerca di una rimozione del proprio passato
Ci sono città in cui fermarsi significa riscoprirsi; ed allora tutto si muove anche se lentamente.
A Trieste, la lentezza si declina con il pensiero.
Si coglie un senso profondo di vita e di grandezza. Di silenzi e lacrime che rigano il volto. E urla strazianti coperte dal silenzio circostante oppure dalle voci e dalla musica.
A Trieste arrivo in cerca di una comprensione storica diretta. Non mediata dai libri o dai pregiudizi politici e storici. Ci arrivo come un osservatore. E in questa veste cerco prima la Risiera di San Sabba e poi la Foiba di Basovizza. I due estremi che si toccano e che da sempre convivono. Con la memoria che qui è eterno presente. Trieste è la città di una memoria che non si cancella.
A San Sabba mi colpisce subito il fatto che la Risiera sia quasi nascosta. Un cespuglio copre l’insegna d’ingresso. Accanto un enorme supermercato “Familia”. Dove papà e mamma vanno a fare la spesa per i loro pargoli. Praticamente accanto, lo Stadio di Calcio del Paron Nereo Rocco, della Triestina Calcio. La vita che si afferma sulla morte. Sull’angoscia di morte.
Appena entro dentro il centro di detenzione, dove i nazisti rastrellavano tutti i nemici del regime, a partire dagli Ebrei, per ucciderli sul posto o portarli ad Auschwitz o Dachau, percorro un centinaio di metri. Alla mia sinistra c’è subito il carcere dove i nazisti rinchiudevano i prigionieri. La cella della morte. Quando entro, con la telecamera in mano,sono assalito da una scossa. Un brivido, come se le urla risuonassero ancora dentro quel tugurio composto solo di muri, senza finestre, senza neppure una fessura verso il mondo. Coperto a sua volta da altre mura altissime. Colgo il silenzio e la disperazione di chi lì c’è finito. Di chi ha coltivato la speranza. E chi ha rassegnatamente accettato la propria fine. Guardo i muri in cerca di qualche messaggio. Conto i passi e osservo per terra. È tutto scuro lì dentro. Sento le urla e il silenzio di questo luogo di morte.
Quando esco mi dirigo prima nell’altra camera della morte, dove si trovano 11 celle di detenzione: un metro per due, per poco più di due metri e mezzo di altezza. Lì rimanevano stipati anche in sei alla volta. Senza luce. Al buio. Faccio due passaggi. Prima alla presenza di una comitiva, in cui una signora che guida il gruppo spiega che lì gli uomini venivano uccisi. A sprangate prevalentemente. Per farlo i nazisti facevano partire della musica dentro il campo, così che gli altri non potessero sentire. Poi racconta di come invece in alcune circostanze i nazisti aprissero gli spioncini di queste micro camere di detenzione. Per i detenuti un momento di felicità. “Voleva dire per loro avere coscienza che quel giorno non sarebbero stati uccisi. Ed era anche il momento in cui potevano togliersi l’un l’altro, i pidocchi.”
Uscendo vedo un’altra sala: la sala a croce. Più grande delle altre. Anche lì gli uomini venivano tenuti prigionieri e spesso torturati. Una sala più grande però e con più luce. Mi domando cosa pensassero coloro che potevano almeno vedere la luce. Proseguendo nel mio giro osservo queste mura altissime e una stele alta altrettanto. Lì si trovava il forno crematorio che i nazisti hanno fatto in tempo a devastare prima che arrivassero gli alleati.
Dentro un’altra sala allestita, invece, trovo una pluralità di schermi dove si conserva la memoria di chi fu imprigionato e che da quell’inferno è uscito vivo. Tutto materiale delle teche Rai. Ho deciso di farvi vedere il discorso di Mussolini a Trieste contro la “razza ebraica”, “irridimibilmente nemici della patria” dice nel suo discorso che vi riporto con immagini di quel giorno. Il fascismo. Benito Mussolini e l’orrore di una tirannia omicida e folle. Qui è mostrata l’insana follia del socialismo rivoluzionario. Qui sono mostrati i reperti , le razzie dei beni degli Ebrei e infine le immagini ancora del campo.
Quando il giorno dopo vado alla Foiba di Basovizza sento subito, salendo in cima, una solitudine altrettanto forte. E tremenda. I partigiani comunisti Titini nella folle rappresaglia contro gli italiani, odiati già dalla fine della prima guerra mondiale. Il loro irreversibile astio e l’ orribile fine di tanti giovani italiani. Ex fascisti ma anche semplici innocenti che con il fascismo non avevano nulla a che fare. Vittime dell’odio comunista. Non trovo le foibe vere e proprie. No. Qui tutto è stato coperto. Non ci sono i crateri e le lacerazioni dentro la roccia per misurare l’odio degli uomini. Qui tutto è mitigato dal silenzio. E dalla cancellazione del dolore negato per anni. Leggo le steli e i nomi delle vittime. Una in particolare,con disegni essenziali incisi sulla roccia, spiega come e a che altezza venivano gettati vivi le vittime italiane. Legati l’uno all’alto, con catene, venivano rovesciati uno via l’altro dentro le foibe e scaraventati giù fino a 500 metri, dice una delle incisioni. Con la telecamera mi avvio verso questa boscaglia in cerca di segnali. Non trovo nulla. Capisco però cosa debba essere stato essere lì 70 anni fa. Magari d’inverno, dentro quel silenzio assordante, su strade desolate. La morte che viene a prenderti. Silentes loquimur, così li aveva definiti uno dei maggiori studiosi di questa tragedia, il prof. Marco Pirina che ho avuto l’onore di conoscere prima della sua scomparsa. È stando lì che capisco il valore del silenzio. Un rumore sordo eppure devastante. Sotto il sole a 37 gradi capisco cosa debba essere stato cadere, trascinato, dentro una Foiba a seguito di un odio ceco.
Trieste porta con sé il peggio e il meglio di quella che è stata la nostra storia. Passarci attraverso fa male e fa bene. In un’immaginaria linea di continuità una sola cosa accomuna il passato al presente. Il silenzio. Maledetto. Benedetto. Che ti arriva dentro e ti penetra nelle ossa. E arriva all’anima. L’orrore è solo addormentato.
La Risiera di San Sabba
La Foiba di Basovizza
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