Storia

Ruggiero Romano (2002-2022). Venti anni di silenzio

5 Gennaio 2022

Oggi, venti anni fa – il 5 gennaio 2002 – moriva Ruggiero Romano.

A ottobre prossimo sarà il cinquantesimo della uscita in libreria della Storia d’Italia Einaudi, diretta e coordinata da Ruggiero Romano e Corrado Vivanti. Indubbiamente un’opera che ha segnato un prima e un dopo nella storiografia.

Non so se qualcuno ne scriverà. Ad ogni buon conto se è difficile non parlare di quell’opera, è vero che i due curatori e soprattutto il vero ideatore dell’opera, ovvero Ruggiero Romano, sono letteralmente scomparsi dall’orizzonte della storiografia.

Non conosco a fondo la produzione storiografica di Corrado Vivanti, ma ho studiato e letto molte cose di Ruggiero Romano: la sua “eclisse” nella cultura degli storici italiani a mio avviso è una grave perdita. È alquanto difficile capire se qualcuno in Italia nella storiografia avverta questo silenzio. A me sembra assordante.

Colgo l’occasione dell’anniversario per ricordare alcune piste di indagine che Romano ha proposto con insistenza, praticamente fino alla fine, che mi sembrano ancora pregne di significato e per molti aspetti, ineludibili.

Come spesso capita per capire l’architrave di un cantiere di ricerca è meglio partire dalle domande poste in «fine vita».

All’inizio del 1998 Ruggiero Romano pubblica un saggio su “Belfagor” che a una lettura veloce sembra un programma di lavoro. Romano presenta cinque temi/concetti rilevanti di ricerca storica che gli premono – rispettivamente:

·         feudalità;

·         crisi;

·         città;

·         sviluppo/crescita;

·         protoindustrializzazione.

Per Romano ciascuno di questi concetti richiama un appuntamento mancato o una misinterpretazione nella discussione storiografica coeva. È per questo che sono rilevanti.

Il primo rinvia a un silenzio sul problema della transizione;

il secondo richiama il venir meno di una storia dei prezzi e dunque si sofferma su un vuoto sia dell’idea di congiuntura sia di quella di ciclo economico;

il terzo sottolinea la sopravvenuta irrilevanza che avrebbe il nesso città-campagna negli studi economici;

il quarto denuncia l’incertezza nella storiografia dominante tra crescite numeriche di dati economici e comprensione di che cosa rappresenti un articolato processo di sviluppo;

il quinto infine, indica come a quell’incertezza si accompagni anche la confusione concettuale tra industria rurale, ovvero un’attività complementare per le popolazioni contadine per le quali centrale rimane l’attività agraria, e protoindustrializzazione che significa regressione dell’attività agraria in confronto all’attività produttiva industriale.

Si potrebbe ritenere che questo elenco di temi abbia il proposito, da parte di Romano, di invitare a una discussione pubblica. In realtà, è vero l’opposto. Non solo perché di lì a poco (gennaio 2002) Romano muore, ma perché in realtà Romano più che presentare dei temi da discutere, riassume in quelle pagine quei temi su cui per più di venti anni ha insistito a discutere, in Italia e in Francia, soprattutto, ma su cui non ha avuto risposte.

Romano dunque compone quelle pagine non per sollecitare una risposta, ma per dichiarare che si è consumata una storia. E che quest’epilogo è la conseguenza di una crisi nella storiografia.

«La mia convinzione – scrive in conclusione – è che si è troppo e troppo facilmente parlato di ‘nuovi paradigmi’ che avrebbero cambiato i fondamenti stessi della ricerca storica. Certo, questa ha bisogno di periodicamente rinnovarsi. Ma il fatto è che il rinnovamento di una scienza tanto solidamente costituita come la storia non si fa – non può farsi – con operazioni di guerra-lampo».

In queste righe Romano allude chiaramente al suo dissenso con i percorsi intrapresi dall’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) su cui ha già avuto di esprimersi all’inizio degli anni ’90.

Ma non solo. Quel confronto, infatti, avviene non solo con la sua “vecchia casa”, ma con le direzioni che gli sembra aver intrapreso la storia economica come disciplina. Un confronto, peraltro, già ampiamente dispiegato a metà anni ’70 quando promuove la ristampa anastatica della prima serie della “Rivista di storia economica”. Gran parte dei criteri che adotta e dei temi su cui da tempo Romano lavora e su cui, significativamente, continuerà a lavorare stanno in quella scelta editoriale e nella lettura che Romano ne propone in un saggio tanto breve quanto denso.

Tre mi sembrano le questioni rilevanti presenti in quelle pagine.

La prima riguarda un tratto biografico: ovvero la convinzione che la posizione dello sconfitto o, forse più propriamente, del marginalizzato non sia di per sé svantaggiosa.

La seconda riguarda questione di che cosa si debba intendere per storia economica;

la terza in cui riflette sui suoi statuti disciplinari e sulla sua fisionomia e, dunque, quali siano i suoi oggetti di studio.

In quelle pagine Romano non solo ci consegna una sua personale genealogia in cui ricorrono fonti e problemi che connotano il suo progetto di ricerca, ma allude anche alla sua idea sulla storia economica. Discende da una parte dalla lezione di Luigi Einaudi, dall’altra, e soprattutto, dalla riflessione storica di Gino Luzzatto.

Di Luigi Einaudi ha presente sia i saggi sulla questione dei prezzi, le note di discussione sul tema del ragionamento economico con cui si sviluppa il confronto con Benedetto Croce, sia soprattutto il saggio con cui Einaudi apre la nuova rivista dedicato alla moneta immaginaria.

Dal complesso di quelle pagine Ruggiero Romano e, più in generale dagli studi che dedica  a storici ed ecnomisti che costituiscono l’ossatura e la sintesi di molte sue indagini eche nel 1982 raduna nel volume Tra storici ed economisti (Einaudi)  ricava il primo fondamento del suo percorso di ricerca, ovvero definire la storia economica. In merito a questo la sua riflessione è già chiara da tempo e l’ha formulata, all’inizio degli anni ’70, proprio a partire dalle pagine Einaudi.

«… il dosaggio di storia ed economia – scrive Romano – ha raggiunto nell’Einaudi proporzioni assolutamente esatte. Nel complesso matrimonio tra le due discipline, ognuna delle due ha sempre avuto la tendenza a tirare la coperta dal suo lato e si è avuta così una storia economica e, di contro, un’economia storica. La prima aveva un fondamento storico: la preoccupazione di ricostruire storicamente fatti ed idee della sfera dell’economia vincolandoli al presente. La seconda, partendo da pretese leggi economiche del presente, ha teso a dare a queste ‘leggi’ una giustificazione storica.»

 

Di Gino Luzzatto ha presente in particolare il saggio Per un programma di lavoro («Rivista di storia economica», I, 1936, n. 3, pp. 181-198) in cui egli formula alcuni dei problemi strutturali della storia economica e soprattutto dei temi che ritorneranno costantemente nella ricerca di Romano.

«È esagerato affermare – scrive Romano – che ci troviamo di fronte alla nascita della storia economica italiana? Certamente sì, se ricordiamo l’operosità preesistente di un Prato, di un Pugliese, dello stesso Luzzatto e di tanti altri benemeriti studiosi. Ma è certo che queste pagine costituiscono il primo atto di una presa di coscienza, in Italia, dell’autonoma esistenza della storia economica. Si pensi che proprio in quegli anni Benedetto Croce negava perfino la possibilità di una storia economica…»

Che cosa sottolinea Gino Luzzatto in questo suo testo?

Prima di tutto la distinzione tra fatto economico e pensiero economico laddove il pensiero economico è essenziale per una più articolata analisi dei fatti economici in quanto capace di illuminare la “mentalità economica del loro tempo”.

Poi la convinzione che analizzare i fatti implichi non tanto l’allungamento della categoria temporale, o l’estensione dell’area geografica osservata, quanto la capacità di saper guardare il complesso della “manifestazioni della vita economica” in un tempo e in uno spazio.

Poi il richiamo alle fonti documentarie, seriali e numeriche su cui lavorare, soprattutto in relazione all’economia agricola: i catasti, gli statuti dei Comuni, gli inventari e le descrizioni delle grandi proprietà, gli atti compravendita, i testamenti, i contratti agrari.

Poi i processi di ritorno verso la campagna, e dunque dell’investimento in proprietà anziché in attività economiche produttive (un tema che Romano rilancia all’inizio degli anni ’60, proponendo la categoria di rifeudalizzazione, che susciterà molte divisioni nella storiografia italiana).

Infine, la convinzione che un ruolo di preminenza lo abbiamo gli economisti non tanto a guidare materialmente una ricerca o a confrontarsi teoricamente su delle categorie, ma a indicare i campi e i temi o gli oggetti della ricerca stessa e a fondarli storicamente.

Infine, la convinzione che un ruolo di preminenza lo abbiamo gli economisti non tanto a guidare materialmente una ricerca o a confrontarsi teoricamente su delle categorie, ma a indicare i campi e i temi o gli oggetti della ricerca stessa e a fondarli storicamente.

Un aspetto che richiama il concetto e il profilo di una storia dell’economia italiana dalle origini fino alla contemporaneità a cui Ruggiero Romano sta pensando da molti anni che organizza nella seconda metà degli anni ’80 e in cui proprio il concetto di modello è fondamentale.

Modello” significa, infatti, pensare a una storia comparata, ma anche a una storia che deve prescindere da primati o da “eccezioni”. Una ricostruzione che obbliga, scrive Romano, «ad esaminare la storia italiana alla luce della storia degli altri paesi europei, degli altri modelli che le si contrappongono e che, a volte, è costretta ad adottare».

La storia dell’economia italiana si definisce per Ruggiero Romano attraverso una doppia pista: da una parte cronologica (ma non per questo “événementielle”) e una che si potrebbe definire di oggetti particolari.

Consideriamo la prima. Il suo profilo è quello di definire la evoluzione (lentissima, secondo Romano) da una struttura feudale ad una capitalistica, evoluzione che si svolge lungo un filo progressivo (e mai definitivo) passaggio dall’economia naturale (ovvero di economia non autarchica, bensì di economia di scambio di beni senza intermediario monetario) all’economia monetaria. Ma non solo. Romano è anche un lettore attento delle cornici e dei costumi in cui intende che sia analizzata la storia dell’economia: essa si colloca in un “contesto politico” (dalle forme feudali a quelle democratiche di potere politico); in un “contesto morale” (da una morale religiosa a una morale laica); infine in uno internazionale.

Romano, proprio per i suoi studi sul Seicento e sulla definizione della crisi del XVII su cui ha lavorato a lungo, nonché sugli effetti che quella crisi ha nel quadro italiano, è consapevole del fatto che una storia economica che si limitasse ad essere “solo nazionale” (e dunque in questo casa “italiana”, ma egualmente potrebbe dirsi se il quadro nazionale fosse la Francia, la Gran Bretagna, la Spagna o l’Olanda,…) sarebbe priva di senso. Non esiste infatti – e su questo i suoi studi su Livorno e su Napoli lo dimostrano già a sufficienza – nessuna economia “nazionale” che non sia legata a (e spesso anche condizionata da) un contesto internazionale.

Ora questo aspetto generale vale anche nella seconda pista dove Romano insiste non più sul profilo storico generale ma sui componenti, sui “pezzi” che costituiscono il meccanismo economico. Ossia: produzione (l’organizzazione del lavoro, le tecniche agricole, le corporazioni; per il secondo volume un interesse particolare è dedicato al mercato internazionale; nel terzo il problema specifico dell’istruzione della alfabetizzazione di massa), distribuzione (con particolare attenzione nel terzo volume per la rete dei trasporti) consumi, città/campagna, funzioni dello Stato (ovvero le finanze, la guerra, e con un particolare interesse, nel volume dedicato all’Età contemporanea, l’ingresso massiccio e determinante dello Stato nella sfera economica); energie (con particolare attenzione al numero degli uomini, alla mortalità, alla fertilità, alle pratiche sessuali, alle epidemie; nel terzo volume il tema si amplia al macchinismo, alle fonti energetiche).

L’articolazione proposta da Romano dunque evita di disegnare una “economia storica”, ma si propone di vedere le connessioni presente /passato, e dunque di cogliere le continuità, le rotture, le persistenze.

Per questo Romano rifugge sia da uno studio sui caratteri, sia da uno fondato sugli elementi naturali.

La storia dell’economia che egli propone dunque presenta un insieme di elementi dove i “dati” (le materie prime, le risorse energetiche, le condizioni ambientali,…), agiscono da sempre insieme con l’intelligenza dell’uomo con le sue debolezze e con le sue forze in un quadro che si presenta storicamente globale e complesso.

Nel quadro che propone Romano, proprio per non cadere in un’astrazione, l’economia deve prendere in carico i molti fattori che connotano la vita associata degli uomini. E dunque: le ricchezze, gli scambi, le merci e il danaro. Ma queste poi fanno parte di un contesto in cui contano nascite e morti, carestie, malattie, energie umane, meccaniche e animali, capacità e strumenti di lavoro, produzioni agricole, artigianali, industriali, successi, e fallimenti. E dove, ovviamente sta il sistema economico internazionale e il contesto internazionale con cui quell’assetto economico nazionale si confronta.

Indagare il Paese Italia, come poi tornerà a scrivere nei primi anni ’90, dunque significa avere uno sguardo duplice: da una parte comprendere i legami tra presente e passato e dunque vedere la genealogia del presente, ma riuscire anche dal presente a risalire al passato. Allo stesso tempo continuare a tenere aperta una pista di indagine sul mondo iberico-americano, che la stessa storia italiana sollecita, proprio perché la congiuntura internazionale in cui matura la sua crisi nasce nel momento in cui quella parte di mondo inizia a interagire con l’Europa.

È a partire da questo tema e avendo presenti proprio le suggestioni proposte da Luzzatto nel 1936 che Romano riprende intensamente a occuparsi di mondo americano a partire dalla fine degli anni ’70.

Ovvero: il ruolo della moneta; che cosa sia un oggetto economico; come in che modo gli studi etno-antropologici siano di aiuto o aprano nuove sensibilità per lo studio dei comportamenti economici; che cosa voglia dire ricerca storica; che cosa sia la storia comparata in che forme e in che modo riflettere sulla lezione di Braudel, a partire dalle pagine della prima sezione de La Méditerranée, ovvero considerando gli oggetti della geografia.

Sono molte le suggestioni dunque che Romano riprende da Gino Luzzatto, e che poi rielabora. E’ importante la definizione della «rifeudalizzazione» in relazione a ciò ai tempi della storia economica italiana e più in generale sulla storia italiana tra XIV e XVII secolo.

Quel concetto è centrale, inoltre, in relazione alla categoria di sviluppo e sottosviluppo tornerà ad utilizzare anche al contesto iberico-americano che egli affronta parallelamente sempre negli anni ’60

Nel caso dell’America meridionale, nota Romano, è fondato parlare di rifeudalizzazione perché in quell’area il feudalesimo significa essenzialmente un’economia naturale fondata sulla presenza congiunta di: a) grandi estensioni territoriali; b) grandi masse disponibili di forza lavoro.

Un quadro che significa circolazione monetaria insufficiente e nel processo produttivo processo di creazione di economie a monocultura. Ovvero: dipendenza. Quello che sembrerebbe avvicinare nel caso sudamericano il quadro coloniale a quello feudale, per Romano si combina con il sistema dei flussi commerciali e di scambio. Di nuovo significa tenere lo sguardo con l’Europa, in particolare la circolazione monetaria, i movimenti dei prezzi, le forme della produzione.

Il tema è la relazione tra sviluppo e sottosviluppo, evitando l’errore anacronistico di sovrapporre o paragonare il sottosviluppo all’economia feudale o di trattarlo come feudalesimo, ma di coglierne il movimento, di vedere le connessioni tra circuiti economici – come nel caso del rapporto tra economia naturale ed economia monetaria – evitando di adottare un modello gradualistico dello sviluppo.

«Errore anacronistico e dalle conseguenze veramente gravi – precisa Romano – per l’esame storico e per l’esame economico. Per l’esame storico, perché introduce una possibilità di paragone tra passato e presente, laddove la situazione non lo consente. Infatti il sottosviluppo non è solo caratterizzato dal fatto che un’alta percentuale della popolazione attiva sia impiegata in agricoltura o dal fatto che il tasso di mortalità infantile sia del 300 per mille. Questi sono segni esterni che possono essere comuni a situazioni del tutto differenti, come differente era l’economia europea del secolo XVI (che pure presenta un forte tasso di mortalità infantile ed una forte percentuale di manodopera impiegata nel settore primario). Per l’esame economico, poi, perché, in sede storica s’istituisce un paragone tra situazioni del passato europeo e situazioni dei paesi sottosviluppati d’oggi, ne deriva implicitamente il principio d’una sorta d’ineluttabilità del sottosviluppo, come di fase inevitabile attraverso la quale si deve passare. Il che non è assolutamente dimostrato, né ancor meno dimostrabile: se il sottosviluppo deriva dalle penetrazione delle imprese moderne all’interno di strutture arcaiche, senza che queste ultime siano scalfite dall’azione delle prime – che, del resto, non si propongono di scalfire, anzi hanno come presupposto di prosperare sulla base di quelle strutture arcaiche -, non si comprende dove sarebbe l’ineluttabilità del processo (ineluttabilità che – inutile sottolinearlo – implica automaticamente una sorta di teoria dei gradi, delle fasi, di ‘pazienza’, nell’ ‘attesa’,ecc…)».

 

Il profilo è dunque non pensare a un quadro regolare, canonico, ma connettere ogni volta quadri economici, forme della produzione, della distribuzione. Per farlo, oltre a un lavoro di equipe, occorre anche avere un’idea di libro che si vuole scrivere – un prodotto intellettuale che vale per il laboratorio che presenta – avendo molte curiosità, ma soprattutto sapendo che i concetti che si usano non sono che strumenti.

Sotto questo aspetto la scelta di Romano di fare dell’America iberica un punto di osservazione e di indagine storica specifico, se non privilegiato, che matura nella seconda metà degli anni ’50 e che poi torna ad essere decisamente prevalente a partire dall’inizio degli anni ‘80, ha molti connotati.

Da una parte corrisponde alla sua propensione per il lavoro di equipe; dall’altra vale in relazione alla definizione di un’idea non eurocentrica della storia e in cui occorreva ancor più che nei confronti degli Africans, Middle Eastern e Far Eastern Studies superare e annullare lo sguardo “esotico”. Un aspetto quest’ultimo che invoca una riflessione critica forse ancora più radicale da quella auspicata e teorizzata da Edward Said con Orientalismo.

Infatti, a differenza di ciò che è riversato nello sguardo orientalistico, lo sguardo sull’America Latina, comprende non solo l’idea che la civiltà iberico-americana sia un riflesso di quella europea, ma anche che essa ne sia “il riscatto”, un processo culturale che domanda alla “periferie dell’ altra parte dell’Atlantico” la funzione di prefigurare un futuro emancipato che a partire dagli anni ’50 verrà affidato simbolicamente all’esperienza castrista e poi, per estensione, a tutta la realtà politico sociale del subcontinente americano.

Un doppio registro che ha come effetto la negazione della storia sociale e culturale del continente, ma anche l’assoluta incapacità di vederne i tratti propri.

Tutto il tema del sottosviluppo e della discussione che Romano intraprende, in polemica con il “dipendentismo” – ovvero la diagnosi del sottosviluppo iberico-americano come effetto e perverso e funzionale dello sviluppo europeo e nordamericano, a partire dal suo primo intervento contro le tesi sostenute da André Gunder Frank – segna una parte consistente della produzione storiografica di Ruggiero Romano e anche caratterizza una sua “missione pedagogica” nella definizione di un’intera generazione di storici americani.

In breve la convinzione che il continente iberico-americano, ma anche tutto il sistema insulare caraibico, andassero indagati assumendo concetti, criteri e categorie economiche che non fossero il riflesso della storia europea. Ossia il riconoscimento che l’America iberica ha una storia e che quella si tratta di analizzare, descrivere e comprendere.

 

Per riepilogare.

Intorno ai due concetti di economia naturale/economia monetaria e di rifeudalizzazione e a ciò che da essi Romano fa discendere in termini di analisi dei comportamenti economici, deriva la rottura metodologica, culturale e storiografica che a partire dai primi anni ’80 si consuma con l’EHESS).

Ruggiero Romano, così, torna insistentemente a riflettere su temi e questioni che avevano segnato il suo progetto di ricerca negli anni ’50 (dalla storia dei prezzi fino alle prime ricerche sul Cile) convinto che la scommessa di una nuova partenza nella ricerca storica non possa prescindere dalle domande che avevano dato vita a quel progetto di cui si sentiva parte allora all’interno dell’EHESS e che ora avverte marginalizzato.

La questione, tuttavia, che in parte riprende le sue riflessioni sull’inconsistenza dell’Accademia come luogo produttore di ricerca – su cui già insisteva nel 1983 – e che lo trova totalmente concorde con l’analisi sul sistema accademico che negli stessi anni propone Pierre Bourdieu – riguarda anche direttamente non solo il senso, ma l’oggetto della ricerca storica. Nella sua riflessione non c’è solo il rifiuto dell’ego-histoire o delle letture antropologiche proposte da Jacques Le Goff, ma anche la convinzione che si sia perduta una dimensione specifica della storiografia come disciplina, affascinata dalle sirene della metodologia o di un’estenuante e improduttiva discussione sul metodo.

Da cui discende la sua diagnosi: la necessità di recuperare non solo una disciplina, la storia economica, ma anche il gusto dell’osservazione e della ricostruzione degli ambienti che sono consentiti da quella ricerca, tra gli altri dalle domande connesse alla storia della moneta, intese appunto come radiografia dei sistemi di relazioni tra individui.

Noi oggi, non solo nella storia economica, siamo ancora fermi lì.

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