Storia
Rosa Luxemburg descritta da Hannah Arendt. E viceversa
Ogni tanto Rosa Luxemburg fa capolino nel dibattito pubblico. Di solito capita quando la linea della ragione sta nel campo del dissenso e allora si tratta di andare per vie traverse a ritrovare un canone, nella illusione di depotenziare il profilo di pensiero scomodo che la sua figura – pubblica e privata – rappresenta.
Luxemburg, infatti, non è una figura comoda, nemmeno per chi dissente, perché non si lascia ridurre all’icona del pensiero alternativo. Anche per questo il ritratto di Rosa Luxemburg che scrive Hannah Arendt è interessante.
Forse, non è un caso, se come osserva Rosalia Peluso nel saggio critico che accompagna la pubblicazione di queste pagine di Arendt (un testo di grande spessore e finezza che vale quanto le pagine di Arendt) che Margarethe von Trotta abbia scelto Barbara Sukowa sia come protagonista di Rosa L. (1985) che di Hannah Arendt (2012) , chissà se anche in conseguenza delle pagine di Arendt von Trotta fornisce in quel film una Rosa Luxemburg che va oltre la filosofa, la politica, la martire marxista e attraverso le lettere, scritte in libertà o in galera da Rosa alle sue amiche e ai suoi amanti, giunge a noi attraverso le passioni private, non meno travolgenti di quelle politiche.
Arendt sottolinea vari aspetti della personalità, intellettuale e umana, di Rosa Luxemburg che, ciascuno e insieme, consentono di non ridurre quella figura all’icona della rivoluzionaria, bensì al tratto più tormentato dell’intellettuale inquieto. Nell’ordine:
- diffidenza nei confronti dei movimenti di emancipazione femminile;
- limiti dell’internazionalismo di fronte all’emergere della questione nazionale;
- maniacale bisogno di protezione della sfera intima;
- l’esigenza di stabilire metri di equità nel mondo;
- la necessità di confrontarsi con Marx;
- l’ansia di preservare l’autentico spirito rivoluzionario insieme al dovere storico e politico di indicare limiti e criticità della prassi rivoluzionaria del XX secolo.
Tutti questo tratti appassionano Hannah Arendt, ma soprattutto la appassionano e, forse vi ritrova un tratto della propria personalità in aspetto che sono costitutivi della vicenda biografica di Rosa Luxemburg che in qualche modo corrispondono o «fanno le rime» con il suo profilo intimo, privato, pubblico.
Ne indico quattro.
Il primo: la condizione di paria. Ovvero la appartenenza di Rosa Luxemburg, tratto su cui Arendt insiste molto, a un milieu ebraico di intellettuali sradicati. Espressione – paria – che poi ritorna nelle sue pagine scritte negli anni ’40 sulla condizione ebraica: individui privi di legami con le società in cui si trovano a vivere – sia rispetto al mondo ebraico, sia rispetto alla società dei gentili.
Il secondo: il successo personale per entrambe non costituisce né un fine, né uno strumento. Semplicemente era una parola priva di senso.
Il terzo: la sensibilità verso un socialismo libertario, estraneo sia al comunismo dogmatico, che alla realpolitik del socialismo riformista, spesso caratterizzata da un tratto paternalista. È un tratto che nel caso di Rosa Luxemburg è testimoniato dalla dinamica della sua morte, ma che è confermato da scene che nel marzo 1921, ritornano a Kronstadt, dove si apre il dossier del passaggio di testimone da Luxemburg a Victor Serge e che Arendt ripropone nelle pagine conclusive di Sulla rivoluzione.
Il quarto: la storia diventa comprensibile se guardata attraverso gli occhi dei perdenti. È un tratto che Arendt ha imparato come grande lezione da Walter Benjamin e che per Luxemburg risuona nelle sue note dal carcere quando prova a ripensare la politica per il dopoguerra.
Prima della guerra, quella è quella condizione di perdente che le consente di comporre L’accumulazione del capitale, il suo saggio sull’imperialismo, intorno alla crescente forbice di distacco tra mondo ricco e mondo povero, tra metropoli e periferie dell’impero ovvero.
Anche in quel caso, come in molti atri momenti, della sua vita, come per Arendt del resto, il prezzo di quella intelligenza continuava ad essere la solitudine.
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