Storia
Il Risorgimento incompiuto nella Sicilia del feudo
Pippo Oddo, indagatore attento della storia sociale siciliana, con questo “Il miraggio della terra nella Sicilia post-risorgimentale (1861-1894), Istituto Poligrafico Europeo editore, ci consegna un quadro puntuale di quanto accadde nell’isola e, soprattutto, a Palermo nel primo quarantennio dell’unità nazionale spostando la tradizionale ottica d’indagine, partendo piuttosto che dalle idee e dai movimenti, dalle condizioni dei contadini siciliani che, pur essendo protagonisti sono stati quelli che hanno subito il corso della storia. Ne viene fuori un’immagine più vera della Sicilia che è non quella statica, rassegnata al proprio destino, nostalgica del passato, scollata dai grandi movimenti che interessano il resto del Paese – immagini accreditate da una mai messa in discussione tradizione letteraria – ma una terra carica di insospettabili indizi di dinamismo. L’isola, come ce la descrive Oddo, appare infatti attraversata e condizionata da tensioni e sommovimenti, una sorta di vulcano ribollente – uso questo riferimento pensando a Gioacchino Ventura con il suo Etna ha scoppiato- che a tratti esplode in forme eclatanti. E’ il caso della cosiddetta Rivolta del sette e mezzo (che non è stata la rivolta clerico-mafiosa come è stata recentemente definita da Lucio Villari) attentamente indagata dal compianto Francesco Brancato. Tuttavia, ed anche questo è nuovo, per Oddo questo esplodere non si risolve in un ribellismo da interpretare tout-court come rifiuto del progetto unitario, come certo revisionismo sicilianista, peraltro poco documentato, vorrebbe accreditare. Più che le ragioni politiche, che vi sono anche, sono infatti le ragioni sociali che alimentano la protesta e che si manifestano in forme di jacquerie a cominciare da un caso emblematico, la triste storia di della repressione di Bronte i cui contorni, al di là della leggenda del tradimento garibaldino, sono stati indagati in un attento e, anche questo documentato, saggio della storica Lucy Riall. A Bronte, infatti, il ribellismo non era che la manifestazione di una aspirazione costantemente presente nella storia siciliana, l’aspirazione dei ceti subalterni a condizioni di vita migliori la cui realizzazione, era convinzione comune, potesse realizzarsi attraverso il possesso di quella terra sulla quale, per secoli, si era perpetrato uno spesso ignobile e disumano sfruttamento. Era più che evidente che i contadini poveri, dispersi nella solitudine del latifondo, avevano “fame di terra”. Il Risorgimento che fu rinnovamento di stili di vita e richiamo delle grandi passioni romantiche, come lo definisce Emilio Gentile, era stato interpretato dai contadini poveri come la promessa di un nuovo corso, la realizzazione di quel “miraggio” del possesso della terra che, come evidenzia Oddo, aveva da sempre segnato il percorso storico dei ceti subalterni siciliani. Un miraggio che si era colorato a tinte chiare nei primi atti del nuovo corso postborbonico; per tutti, il decreto del 2 giugno del 1860 che stabiliva la divisione delle terre demaniali tra le famiglie che non ne possedevano oltre alla quota riservata ai combattenti. Un miraggio che, come tutte le illusioni, ben presto si sarebbe scontrato con la dura realtà, e qui mi pare non del tutto scorretto il riferimento tomasiano, del “tutto cambi per non cambiare nulla”. Infatti, conseguita l’annessione al Regno, le promesse erano in gran parte rimaste nel dimenticatoio e il solito ceto dominante – gonfiato dei nuovi ricchi – aveva potuto essere confermato nelle proprie posizioni e rilegittimato a dettare regole a tutela di un ordine sociale. La conferma, cioè, del sistema di privilegi stratificato nel tempo. Oddo sottolinea inoltre, fermando soprattutto l’attenzione su Palermo e provincia, e sostanziandolo di abbondanti riferimenti a fatti ed eventi piccoli e grandi accaduti in quegli anni, la sostanziale incapacità, spesso dovuta a vera e propria malafede, del potere centrale di comprendere i reali problemi dell’isola, e quell’assurda semplificazione tesa a ridurre il tutto a quello che potremmo definire un problema di ordine pubblico. Ne sono esempio i risultati della Commissione per l’inchiesta sulle condizioni morali ed economiche della città e della provincia di Palermo istituita dalla Camera nel 1867 che, pur avendo lavorato sul campo, “non aggiunse nulla d’importante all’indagine che le era stata affidata”. Dunque, il pugno di ferro che i Piemontesi, spesso sollecitati da quanti siciliani stessi avevano interesse alla mistificazione, mostrarono nei confronti dell’isola e degli isolani, e che in taluni casi si manifestava in azioni che hanno disonorato l’aurea romantica del processo unitario – significativo è il modo in cui vengono perseguite le violazioni agli obblighi di leva dimostratisi in molti casi devastanti per le condizioni economiche delle famiglie contadine siciliane – alla luce del ragionamento di Oddo, non sono che la espressione della incomprensione dei problemi isolani erroneamente interpretati da alcuni storici in termini antiunitari. L’autore non manca di approfondire inoltre la tematica che vede le fratture nel partito d’Azione e le contraddizioni che attraversavano i progressisti siciliani. Figure, ad esempio, come quella di Francesco Crispi, per ragioni di realpolitik si era convertito al ruolo di opposizione moderata, o come quella del generale Giovanni Corrao, cospiratore sul quale sono corse molte dicerie e la cui storia meriterebbe di essere ulteriormente indagata, entravano da protagonisti in questa complessa vicenda. Come entravano i cambiamenti di fronte o talune innaturali alleanze (filo borbonici, clericali e estremisti di sinistra si videro in talune occasioni insieme) e irrazionali mutazioni di fronte o di parte di quanti si collocarono, come nel caso di Giuseppe Badia, colui che aveva sostituito Corrao, nell’ala estrema della sinistra. Interessantissime sono le pagine dedicate al tema più importante che segnò i primi dieci anni della storia siciliana, quello cioè dell’eversione dell’asse ecclesiastico – “ultima e preziosa risorsa da cui derivare il ristoro delle finanze nostre”come fu definita dai parlamentari La Porta ed altri, nel corso della discussione alla Camera. Nella confusione che porta all’adozione dei relativi provvedimenti, che non si fanno scrupolo nonostante taluni richiami al buon senso di manifestarsi come “punitivi” nei confronti della Chiesa, come li definì il parlamentare cattolico Alvise, emergeva in modo chiaro il risultato tutt’altro che positivo dell’intera operazione. Agevolate da talune prese di posizioni rigide e politicamente poco opportune, della santa Sede che, come afferma Oddo, spesso furono subite dal clero locale – non bisogna dimenticare, e ce lo ricorda lo storico Brancato, come il basso clero avesse dato il suo consenso e avesse agevolato l’impresa garibaldina – ad avvantaggiarsi della situazione accaparrandosi a poco prezzo di beni di grande valore, furono infatti solo i soliti potenti che, in più di un caso si servirono dell’appoggio di poteri loschi, criminali e mafiosi. Proprio in quell’occasione la mafia, accreditata dal potere politico locale, ne diveniva soggetto legittimo. Il risultato fu che ai contadini, a coloro che aspiravano ad un pezzo di terra per soddisfare i bisogni minimi esistenziali, venne tolto perfino quel vantaggio di carità che Chiese, conventi e assistenza ecclesiastica varia fornivano gratuitamente attenuando gli effetti della miseria. Da quanto sopra, sorge naturale la domanda sul senso e sul significato del Risorgimento in Sicilia, se si debba parlare, come vorrebbero i feroci critici del processo unitario, di conquista regia o di un Risorgimento tradito, Oddo ci da qui una risposta, che mi trova ampiamente consenziente, la sua risposta sfugge, infatti, alle suggestioni ideologiche o antiunitarie, e si sintetizza nell’idea di un Risorgimento incompiuto, un processo che avrebbe dovuto essere, almeno in Sicilia portato, ma non lo è stato, alle sue naturali conseguenze, cioè spinto a ridefinire i rapporti socio-economici che per secoli avevano contraddistinto l’isola.
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