Storia

Risentimento e odio. Il ritorno dell’ “Uomo qualunque”

6 Novembre 2019

L’odio è tornato potente tra noi, avverte Luciano Canfora

Questo sentimento non è una novità nella storia italiana. Ha già avuto corso circa un secolo fa, e sappiamo come è andata

Anche allora si scivolò per gradi e dunque non serve a molto cautelarsi e ripetere come un mantra che c’è differenza tra “ora” e “allora”. È Luciano Canfora, a insistere su questo punto nel suo ultimo libro, Fermare l’odio (Laterza).

È un’argomentazione che ha un suo fascino e forse anche molti elementi di dimostrazione dalla sua, ma non mi convince pienamente anche se capisco e condivido le preoccupazioni che Canfora propone. Il tema sta nella velocità del processo di riscoperta e di riemersione di un lessico, di una visione mondo, che per molto tempo è stata data per definitivamente morta. È il meccanismo in cui improvvisamente il “buono italiano” sembra riscoprire e rivalutare propensioni proprie di un tempo passato.

Propensioni che corrispondono anche a tratti culturali o di convinzione profonda.

Tutti elementi che Luciano Canfora ricorda ed elenca con precisione e che qui riassumo: “anti-intellettualismo”, “passato mitico”; “culto della gerarchia”, “vittimismo”.

Verissimo e indubbiamente il mix di queste componenti produce almeno «propensione all’odio». Ma questa condizione va anche relazionata al rapporto cittadino-stato e dunque, in questo caso a quel rapporto nella ideologia e nella pratica fascista.

A mio avviso l’ipotesi politica, culturale e anche strategica che sta nel fascismo fa della centralità dello Stato la categoria fondante e questa categoria è così strutturale che non avrebbe mai ammesso di delegare al cittadino, al privato, comunque all’individuo singolo, l’esercizio della violenza. Certo avrebbe assunto (come infatti è stato) la violenza come sua componente strutturale, ma non l’avrebbe delegata o concessa al privato perché lo Stato e dunque la sfera pubblica aveva una funzione pedagogica primaria, centrale, e il cittadino a quella sfera non era pensabile che potesse sfuggire.

È importante sottolineare questa dimensione perché l’attuale disponibilità all’esercizio privato della violenza, a “regolare i conti da soli” nasce da un principio opposto, ovvero dall’idea che “pubblico”, statale, è “disturbo”, meglio è “invasione illegittima nel privato”.

Il tema dunque non è se quella propensione alla violenza alluda a un’origine o a una matrice, ma in quale vocabolario politico, in quale mentalità che guarda alla politica come nemico si origini oggi la domanda di politica e quale offerta di politica trovi più soddisfacente a quella domanda. Più che il fascismo, a me sembra che il tema che quella cultura di fondo richiama ci porti a guardare al qualunquismo, ovvero all’italiano “Uomo Qualunque” di Guglielmo Giannini, esperienza, ma soprattutto sentimento che insieme testimoniano di una cultura tutt’altro che pacifica e che chiede con prepotenza, se non con violenza, che la dimensione pubblica si faccia da parte, non entri nella vita di ciascuno e di tutti. Cultura, invece, che percepisce la politica come territorio da cui guardarsi, da tenere lontano, perché gli affari miei non solo li gestisco da solo, ma “li risolvo da solo”. Cultura che non a caso rientra e ritorna alla ribalta nel momento in cui in Italia i partiti politici di massa “sono finiti in soffitta”.

È a quel senso comune di antipolitica che occorre dunque prestare attenzione e forse è su quel terreno che si incontrano due sentimenti per certi aspetti complementari o almeno contigui. Da una parte appunto l’odio su cui giustamente e opportunamente invita a riflettere Luciano Canfora, e dall’altra il risentimento, una dimensione di vissuto emozionale su cui più di un secolo invitava a prestare attenzione il filosofo Max Scheler.

«L’ambito del risentimento — scrive Scheler — è quindi limitato innanzitutto a coloro che sono perennemente servi e dominati e invano lusingano alla rivolta contro il pungolo di un’autorità». Dal risentimento nasce il desiderio di vendetta, proprio dei deboli, e l’anima offesa coltiva l’odio, il rancore, l’invidia per l’altro. Si tratta sempre di reazioni a posteriori, mediate e meditate, poiché «agli schiavi — come scrive Nietzsche nella Genealogia della morale — è preclusa una reazione vera, quella dell’azione, che possono soddisfare solo grazie a una vendetta immaginaria».

Non è una consolazione perché quella sfera di risentimento proprio sull’odio trova un veicolo non solo di diffusione, ma di legittimazione. Ma di nuovo un odio che corrisponde a una storia concreta, che è storia politica, ma anche mentalità dentro la storia del Paese Italia e che si coniuga con una condizione diffusa, anche fuori dall’Italia, e anche lontano da qui, anche non in relazione all’esperienza politica dei fascismi.

Un sentimento fortissimo che è tornato a soffiare nel nostro tempo e che sembra l’unico motore capace di pensare futuro, proprio perché la macchina generativa che lo pone in essere è il risentimento che non è solo costruzione di un nemico o individuazione di un soggetto su cui scaricare la propria scontentezza, ma quando si compie un’operazione di rovesciamento dei significati e dei valori che sovrintendono all’agire pubblico dei singoli e dei gruppi umani.

È ancora a Scheler a scrivere:

“Il risentimento realizza la sua massima prestazione quando diventa determinante per una «morale» nel suo complesso al punto che le sue regole di preferenza per così dire si pervertono alla loro volta e ciò che prima era un «male» appare «buono».”

L’odio più che la macchina generativa risulta allora il veicolo, ciò che consente al risentimento di diventare cifra di un tempo. Una macchina che, più di ogni altra cosa semina dolore e disperazione nelle nostre vite e che, come ha scritto Wislawa Szymborska in una composizione dal titolo L’odio, è l’unico sentimento attivo nel nostro tempo.

Guardate com’è sempre efficiente,

come si mantiene in forma

nel nostro secolo l’odio.

Con quanta facilità supera gli ostacoli.

Come gli è facile avventarsi, agguantare.

[…]

In ogni istante è pronto a nuovi compiti.

Se deve aspettare aspetterà.

Lo dicono cieco. Cieco?

Ha la vista acuta del cecchino

e guarda risoluto al futuro –

lui solo.

 

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