Storia
Risentimento. Attore e fattore di storia
Di risentimento molti hanno scritto, soprattutto tornando a riprendere in mano quanto scrive Nietzsche nella Genealogia della morale (per esempio Pietro Barbetta). Un percorso distinto lo ha proposto anni fa lo storico Marc Ferro. Quel libro vale la pena riprenderlo in mano anche in relazione alla sfera dei sentimenti e fa da sfondo alla guerra in Ucraina. Accanto ai temi economici, geopolitici, strategici, anche una attenzione alle sensibilità, più semplicemente ai sentimenti che entrano in gioco credo sia un esercizio utile. Il risentimento, dunque come attore e fattore di storia.
Il risentimento è una passione che dovremmo considerare come uno dei motori del farsi della storia. Della «Storia grande».
Il risentimento, non la rabbia. Perché nei confronti della rabbia siamo portati a considerare delle attenuanti, a considerare un dato di immediatezza, un aspetto «pre-razionale». Ovvero un motore dell’azione prelogico, immediato.
A differenza della rabbia, Il risentimento, è una condizione che presume un tempo lungo, dietro, una lunga fase di incubazione. Ovvero: presume esser tornati a considerare l’argomento, a covare un conto non chiuso. Sentimento, quando si trasforma in gesto, che allude a una decisione, perché fondato su una memoria, e coltivato nel rancore.
Il risentimento non produce gesti non meditati. Anche per questo individua una consapevolezza e, nel caso di azione che riguarda la propria vita, ma soprattutto la vita di altri che sono oggetto e obiettivo della nostra azione, una responsabilità.
All’origine del risentimento, tanto nell’individuo singolo, come nel gruppo sociale, si trova sempre una ferita, una violenza subita – spesso il racconto reiterato di una violenza subìta – vissuta come un affronto, un trauma.
La sconfitta è un trauma, spesso intravisto come un tradimento, più che il riconoscimento della propria debolezza. Se rimaniamo vicino a noi e a casa nostra: così è per la Germania che esce dalla Prima guerra mondiale; così è per la Francia che si arrende, 22 anni dopo, nel giugno 1940, all’esercito del III Reich; così è per i fascisti italiani alla notizia dell’arresto di Benito Mussolini (25 luglio 1943) e poi ancor più all’annuncio dell’armistizio (8 settembre 1943). Gran parre della violenza messa in atto da i miliziani di Salò nasce da quel senso di tradimento. L’obiettivo primo di quei 20 mesi (tra settembre 1943 e aprile 1945) non è vincere bensì «fargliela pagare».
Anche per questo il mito del nemico interno, il mito del complotto, la convinzione di essere vittime di poteri che hanno seguito i propri interessi e non quelli superiori della nazione, sta a fondamento del sentimento di chi vede sconfitta subita come ingiusta, ma non perché i nemici erano più forti, ma perché all’interno del proprio campo stava chi «ha venduto» la nazione al nemico.
Lo stesso paradigma torna nel sentimento dei polacchi tra seconda guerra mondiale e dopoguerra, convinti che una parte consistente dell’Europa debba al loro eroismo la sua rinascita (non è forse verso che a Cassino sono le truppe polacche che riconquistano la vetta e in altri campi di battaglia non si sottraggono dallo scontro?) salvo poi di nuovo trovarsi soli, sconfitti, vinti a guerra finita (forse uno dei motivi per cui la richiesta all’Europa di mettere da parte la memoria della seconda guerra mondiale come guerra antifascista e di riparametrare quel sentimento sanzionato anche con la il documento dell’Unione Europea sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa votato Parlamento europeo del 19 settembre 2019, non è solo un modo per «rimettere le cose a posto», ma nasce anche, appunto, da una condizione di risentimento.
Lo stesso che riguarda le sei sentimenti che Franz Fanon propone nelle sue riflessioni sul riscatto dei colonizzati, o nel profilo che produce la piattaforma politica che porta ad Al-Qāʿida., che non è tanto il rifiuto del l’imperialismo, bensì del processo emancipativo della decolonizzazione dei movimenti politici di liberazione che fanno dello Stato e non della società organica, nel caso del mondo islamico, la rivendicazione di Osama bin Laden non aveva come data il 1948 (la proclamazione della nascita dello Stato di Israele o la nakba, la catastrofe palestinese) ma la nascita dello stato laico turco, in seguito alla dissoluzione del califfato, e poi gli stati nazionali postcoloniali. Il nemico, insomma, non è il sionista David Ben Gurion, bensì l’infedele Kemal Atatürk.
Se dunque il risentimento nasce come ideologia di contrasto, a destra come a sinistra; se non è appannaggio dei vinti, ma spesso caratterizza il vissuto dei vincitori; se all’origine della sua forza sta una politica che ruota intorno all’idea dell’identità, rivendicata come dimostrazione della propria risolutezza o della propria capacità di resistenza alle sirene ammalianti del mondo avverso, non si può allora considerare che questa sia esattamente la piattaforma, al di là di tutte le rivendicazioni territoriali, che ha mosso l’azione di Vladimir Putin?
Non è un dato di dettaglio, credo. Perché se questo fosse il fondamento, allora se ne deve dedurre che quel sentimento che chiede di essere «riparato» non è contrattabile. Dunque, ne discenderebbe che quella a cui stiamo assistendo non è una guerra locale, né una guerra «rapida», indipendentemente dallo scontro sul campo.
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