Storia
«Il gioco dei regni» di Clara Sereni: fare memoria di una storia speciale
Alle volte capita che sia un testo di letteratura a suscitare la domanda sul passato e a riaprire un’inchiesta su un tema che per molti non esisteva, e che per quelli che in un qualche modo sanno la storia, più spesso per sentito dire che non perché su quella storia si sono misurati per davvero, era già risolto dai fatti.
Quando Clara Sereni pubblica Il gioco dei regni (siamo nel 1993) della vicenda lunga e, tormentata e anche umanamente lacerante di Enzo Sereni (1905-1944) ed Emilio Sereni (1907-1977), rimane ben poco.
Quel libro e quella storia, vale la pena riprenderla in mano, non solo per ricordare che cosa ci ha dato e ci lascia Clara, ma anche che cosa si può fare attraverso la costruzione e poi l’uso di un libro, in un tempo, quello attuale, che sembra alludere al fatto che dei libri non ci sia poi questa necessità.
Dunque quel confronto fraterno. Vicenda che spesso configura profondo amore, ma anche asprezza e che proprio per questo é capace di cogliere molti aspetti del Novecento a chi abbia la pazienza di guardarlo. Dentro a quel conflitto sta forse oggi il quadro di un tempo che con fatica i contemporanei riescono a vedere come proprio. Ma che invece racconta delle origini di questo nostro tempo, delle sue inquietudini, e anche dei sogni infranti.
Tra i fratelli si consuma quel lungo confronto tra sionismo e comunismo che può essere affrontato secondo due diversi percorsi: il primo riguarda il contenuto programmatico, ideologico, culturale di ciascuno; il secondo riguarda il percorso emozionale, mentale, culturale di chi vi aderisce.
Nella loro storia quel confronto ha avuto un peso e una funzione rilevante non solo per il contenuto specifico di quelle due diverse scelte, ma soprattutto per ciò che di comune vi era. Quella relazione culturale e umana di grande intensità, proprio su quella convergenza e su quella profonda conflittualità ha rappresentato e condensato simbolicamente uno degli scontri ideologici più significativi del Novecento. Per questo vale la pena parlarne. E’ per certi aspetti un’occasione mancata, almeno finora, perché il tema più che premettere a un confronto sulle ideologie – un aspetto che oggi sarebbe sterile e comunque di scarsissima rilevanza – ha un suo rilievo in merito a una studio sulla storia culturale e politica di una generazione che per molti aspetti ha espresso la fisionomia delle culture del Novecento.
Se alla fine dell’intero ciclo di quello scontro tra le ideologie si dovesse trarre una sintesi, si potrebbe osservare senza difficoltà che tra i due è stato decisamente il sionismo ad avere la meglio. Da una parte, infatti, abbiamo la scomparsa e l’eclissi di un sistema per manifesto fallimento e per certi aspetti non solo per non aver raggiunto i suoi obiettivi dichiarati, ma anzi per essersi trasformato nel tempo in una sorta di rovescio speculare di se stesso, fino a riprodurre nella realtà il sistema oppressivo cui originariamente si era contrapposto. Dall’altra abbiamo, invece, la realtà di un progetto che ha realizzato e mantenuto il proprio obiettivo primario. É indubbiamente una differenza che fa la differenza. Ma questa differenza strutturale, non consente di cogliere altri aspetti di una possibile relazione e comparazione. Anche perché oggi è difficile comunque dire quanto del sionismo di Enzo Sereni sia ancora vivo.
Ma resta un fatto, comunque.
I movimenti politici, si misurano non solo per il contenuto ideologico che li fonda e li caratterizza o per le cose che propongono, o per come realizzano ciò che si propongono. I movimenti politici si valutano anche in relazione ai processi di mobilitazione che suscitano. All’origine del sionismo come del comunismo sta una rivolta ed è con quella rivolta che occorre confrontarsi per valutare che cosa sia rimasto sul campo. Del comunismo come movimento di mobilitazione oggi è rimasta una capacità di attrazione in base a un mito. Un meccanismo che deve scontare la propria sconfitta storica. Del sionismo è rimasto un obbiettivo conseguito.
Che cosa ha significato questo successo? Consideriamo questo esito a partire dalla configurazione sociale e culturale attuale. Esiste una crisi politica e forse anche una crisi sociale di Israele rispetto al sogno di partenza. Si potrebbe ritenere che la crisi israeliana sia conseguente alla fine o all’eclissi di quel sogno comunitario che avrebbe dovuto rappresentare l’istanza della salvezza e che, invece, si è rivelato incapace di mantenere la promessa. Se la realtà israeliana odierna fosse solo questo, sarebbe sufficiente prendere atto che il sogno pauperistico e comunitario delle “élite ebraiche” del primo quarto del Novecento ha metabolizzato la propria dissoluzione a fronte di una dimensione di successo: ovvero la crisi societaria israeliana nascerebbe non già da una mancata realizzazione, bensì da una compiuta incarnazione del sogno che indurrebbe l’annullamento dei presupposti austeri del modello societario di vita come ha richiamato anni fa Barrington Moore, Jr.
Ma la vicenda israeliana e la riflessione su che cosa e come oggi il sionismo, ovvero la macchina ideologica e culturale che ha posto in essere la realtà culturale e sociale israeliana pensata come esperimento e dunque come sfida artificiale, non è solo il problema della sua tenuta, della sua sopravvivenza, comunque della garanzia della sua esistenza. Certo questo costituisce un terreno essenziale nella partita politica da non accantonare né da considerare marginale o secondario. Il problema oggi della sfida che il sionismo ha di fronte è la capacità e la possibilità di rappresentare culturalmente quella “rivolta” e quella spinta al rapporto tra utopia e redenzione che ne ha posto in essere la sua matrice essenziale. Il problema dunque è: che cosa rimane di quella spinta emozionale? E in che forma e in che modi oggi si misura la dimensione dell’utopia politica? Perché se il terreno di scontro era rappresentato solo dalla dimensione tra visione universalistica totalizzante e dimensione nazionalista, allora appunto quel confronto non avrebbe né peso, né rilevanza. Semplicemente i fatti hanno dichiarato chi ha vinto e chi ha perso. Un progetto di tipo universalista non è riuscito e ha ripiegato su un nazionalismo oppressivo. L’altro ha garantito il successo al nazionalismo che cercava di fondare.
Ma quel confronto viveva anche di altro. Essenzialmente di un’ipotesi politica artificiale. Ovvero si fondava sull’idea che per fare la politica, per determinare un evento in politica, occorresse prendere una decisione, forzare gli eventi, persino crearli. In altre parole che occorresse decidere una discontinuità nella storia.
E’ in merito a questo che ha senso riconsiderare quello scontro e riconsiderare come lo vissero e lo interpretarono Enzo Sereni ed Emilio Sereni.
Intorno alla vicenda di Enzo ed Emilio Sereni la questione è sempre apparsa quella del confronto tra due figure che riassumevano nelle loro scelte le grandi lacerazioni del Novecento.
In quella vicenda famigliare, intima si è spesso condensato il senso di una guerra che prima di tutto era con se stessi, con il mondo dal quali entrambi uscivano.
E’ probabile che a una lettura superficiale de Il gioco dei Regni, la ricostruzione dall’interno di quel conflitto e di quel confronto, questa possa apparire la cifra strutturale di quella storia. Sarebbe tuttavia un’interpretazione in gran parte sbagliata, per di più è un profilo che Clara Sereni s’impegna a dimostrare infondato. Dentro a quella vicenda l’elemento della famiglia rappresenta a mio avviso il quadro e l’ancoraggio più stabile. E’ all’interno di altre variabili che dunque andrà valutata quella vicenda e soprattutto compreso il senso di quel confronto.
Che cosa rappresenta la scelta sionista per le giovani generazioni italiane del Primo Novecento? Rappresenta essenzialmente una rottura culturale con il proprio ambiente di provenienza famigliare, ma anche la risposta a un processo di emancipazione di integrazione che non trovava più spazi o margini per individuare un profilo culturale in grado di rispondere alle attese di nuovo che lo scontro bellico suscita.
Nel caso di Enzo ed Emilio Sereni conta la crisi della società italiana, l’insoddisfazione per i quadri culturali dell’emancipazione e integrazione promossa e definita nell’Italia liberale, conta il confronto e la scoperta di un mondo ebraico – quello est europeo – intravisto fino a quel momento come lontano, altro da sé, comunque estraneo alla propria sfera. Conta la percezione che la percezione della fine di un mondo, del proprio mondo. La sfida è dunque andare oltre. Per questa generazione che matura la propria riflessione politica tra guerra e Marcia su Roma, che avvisa la strettezza, lo smarrimento del contatto con il mondo, che sente il paese chiudersi, il sionismo è una finestra con il mondo, è la possibilità di conoscere e incontrare altri mondi e perciò di rinnovare se stessi e dare nuove chance di trasformazione e di vita. Il sionismo è per questa generazione una sfida. Che può avvenire in un clima di grande coinvolgimento famigliare – come nel caso dei due Sereni – ma anche in un clima diverso, di rottura, di lenta estraniazione all’ambiente circostante. In breve “di fuga”.
Il sionismo come vissuto ideologico, come “scelta”, si innesta dentro un processo di riflessione che attraversa le giovani generazioni ebraiche italiane in un momento – tra anni ’10 e metà anni ’20 – in cui molte sono le questioni da ridefinire: da quelle educative, a quelle culturali, a quelle del ricambio generazionale all’interno delle leadership nel mondo ebraico. All’origine di questa condizione sta la percezione che l’esperienza dell’ebraismo italiano sia ormai giunta al termine. Ovvero che sia un mondo incapace di esprimere forze intellettuali e morali che diano il ricambio alla generazione che li ha maturati e fatti crescere. In breve che occorra un cambiamento radicale di paradigma.
Lo stesso in quegli stessi anni vale per l’esperienza comunista in gran parte della realtà sociale, culturale ed anche emozionale, che percorre l’Europa tra anni ’10 e anni ’20. Certo conta e pesa il “fare come in Russia”, ma l’elemento fondamentale è la possibilità che si possa forzare la storia in un punto e che dunque esista la possibilità non che “qualcosa avvenga”, ma che “qualcosa si faccia”.
In quel contesto il problema non è solo cosa rappresenta l’elemento volontaristico o innovativo di una cultura come quella dei torinesi dell’ “Ordine nuovo”, bensì quali stimoli produca la sconfitta politica. In termini di domande, di nuovo processo di acculturazione, di meccanismo che chiede non un’adesione a un progetto che ha dalla sua la storia, ma che riflette in termini di creazione artificiale della politica rispetto alla storia.
Questo aspetto rimane ancora nel paradigma culturale e politico sia dell’esperienza sionista come in quella comunista. Tutta la cultura politica determinata dalla scelta produttivistica, che rappresenta il rifiuto del determinismo geografico dei luoghi aridi, ovvero tutta l’ideologia e la pratica della bonifica della trasformazione del paesaggio rurale tanto nell’esperienza dei comunismi come in quella del sionismo vive ancora di quell’idea artificialista della politica. E’ la stessa che muove Enzo Sereni negli anni di Ghivat Brener, (tra fine anni ‘20 e anni ‘30, un decennio molto inquieto, per molti, ma anche per lui) ma è anche la stessa che costituisce il rovello culturale di Emilio Sereni quando riflette sul paesaggio agario comne risultato, come intervento, ma anche come trasformazione. Una riflessione che Emilio apprende da Marc Bloch, ma che non è estranea alla sua scelta giovanile di studi dell’agricoltura e che allude anche a un problema culturale complessivo in cui il mondo agrario non è quello dell’analisi della produzione. Un ambito dove entrano le tecniche, ma anche gli uomini, le società, ma anche i flussi delle passioni, le decisioni, gli entusiasmi e le angosce di un mondo.
Alla fine conta come si decide in politica, quali percorsi culturali si affrontano, quali strade e ipotesi rimangono aperte. Ma soprattutto quale innovazione culturale si è prodotta. Chi sono, culturalmente, i soggetti e gli attori coinvolti. Quali rotture includa una scelta che prende atto della inconsistenza e della insufficienza intrinseca della tradizione cui si ispira, della necessità della rottura del tempo, comunque della propria continuità storica. All’esperienza comunista questa scelta non ha garantito una chance. Per il sionismo questa è stata la condizione per consentire la definizione del proprio paradigma e dunque di trovare un’identità del gruppo ebraico che ha aderito a quell’ipotesi politica, ma anche a fornire strumenti culturali a chi se ne è chiamato fuori perché non convinto di quella proposta e del contenuto politico di quella scelta. E che a ciclo concluso avverte la propria marginalità e l’impossibilità di continuare a tenere insienme molti elementi.
Resta il problema di come configurare quella condizione una volta che si rompa il profilo esclusivamente comunitarista o nazionale di quell’esperienza e la si valuti come paradigma aperto. E’ la sfida che si è aperta nell’epoca dell’intercultura. Una sfida che obbliga a ripesare ancora una volta il rapporto tra tradizione e innovazione come discontinuità e non come ricongiunzione a un passato mitizzato.
Devi fare login per commentare
Accedi