Storia

Riprendendo in mano “Cultura di destra” di Furio Jesi

25 Febbraio 2018

Ieri ho ripreso in mano un vecchio libro di Furio Jesi, uno dei miei maestri. Si intitola Cultura di destra un’indagine intorno ai luoghi comuni, le formule e le parole d’ordine che fanno riferimento a “valori non discutibili” come: Tradizione, Passato, Razza, Origine, Sacro, tanto per indicarne alcune.

Ci sono molti elementi per cui valga la pena riprendere in mano quelle pagine.

Uno mi sembra essere  questo. Ancora pochi anni fa Cultura di destra (uscito una prima volta nel 1979 per Garzanti) e ripubblicato   nel 2011 in una nuova edizione a cura di Andrea Cavalletti per Nottetempo, aveva suscitato una strana reazione.

Allora il  testo di Furio Jesi era stato giudicato (quel tempo sembra ora lontanissimo, almeno nei gusti e nelle parole, ma solo in chi allora non voleva vedere e non voleva ascoltare, soprattutto non voleva monitorare la costruzione di un linguaggio pubblico fatto di parole, di immagini, di semplificazione del linguaggio fino alla banalizzazione) come la riproposta di un autore e di un testo fuori tempo massimo, un  ultimo residuo di un tempo andato, comunque di una stagione decisamente finita.

Ci siamo ritrovati invece nel giro di pochi mesi, talvolta di poche settimane, di fronte a un fenomeno politico (ma soprattutto culturale) che a molti sembra essere uscito concretizzato dal niente e uscito dalla testa di Minerva già adulto, come conformato.

Credo che in quel vizio o in quella lettura ci sia contemporaneamente una doppia modalità pigra. Cultura di destra fornisce elementi per abbandonare quella prigrizia almeno su due piani: da una parte  gli elementi che Jesi porta al tavolo di analisi; dall’altra  le fonti su cui Furio Jesi lavora.

In  Cultura di destra Jesi indaga con sagacia esaminando le varie facce della mitologia fascista e nazista; gli autori che ne sono considerati i punti di riferimento (Evola, Eliade), ma anche Carducci,  D’Annunzio, Pirandello, Liala, la vicenda degli ebrei italiani che favorirono il fascismo o, infine, alcune pagine di De Amicis.  Ma anche l’immaginario della falange spagnola, il gusto per la figura del miliziano, l’idea di un forte sentimento religioso e di una convinzione teologica nella propria decisione di schierarsi e di andare in contro alla “bella morte”.

Vicende lontane da noi e forse anche dalla cultura post ideologica del centrodestra che a lungo ha segnato il panorama politico della Seconda Repubblica, ma che non è quello seguito alla sua crisi e  alla configurazione di una  nascenteTerza repubblica.

Dentro a quella lingua   (ostilità verso diversi e stranieri, leaderismo carismatico e strutturalmente amorale, ostentazione del lusso, difesa della “famiglia”tradizionale, lotta a un comunismo che non c’è più, creazione di pseudoconcetti, …)  riaffiorano  con altre vesti, vecchi elementi tradizionali  e consolidati dell’ideologia italiana.

Ne elenco tre sinteticamente (altri se ne possono indicare) secondo me essenziali e su cui quel testo di Jesi  ci fornisce molti elementi concettuali, e soprattutto la cartella di lavoro per analizzarli, lo scaffale culturale dei testi di culto fondamentali.

Il primo riguarda l’elemento sovranista, in cui fa la sua riapparizione quel concetto di nazione proletaria così cara al linguaggio e alla cultura del socialismo nazionale, comunque dell’ linguaggio del nazionalismo italiano de primi anni ’10  del sindacalismo nazionale.

Il secondo riguarda l’idea di complottismo, comunque di interpretazione di sé come vittima. Idea  che ha una storia nell’Italia moderna e contemporanea e su cui è sempre cresciuto un linguaggio xenofobo, antisemita, orgogliosamente nazionale.

Il terzo riguarda l’idea di un paese che deve fare da sé perché del resto del mondo non bisogna fidarsi. E’ il tema che nell’Italia del primo dopoguerra fonda la convinzione di una «vittoria mutilata» e che legge i propri avversari politici interni come forze «al servizio dello straniero». La prima forma di quel sovranismo che oggi erge a feticcio negativo l’Europa e allora la Società delle Nazioni. Comunque l’idea d’interesse nazionale come spazio delimitato alle proprie frontiere e minacciato dagli altri.

Diciamo destra, ma già anche per Furio Jesi questi elementi erano profondamente radicati anche in una parte consistente, comunque non marginale, di chi diceva di collocarsi a sinistra e che anche allora, come ora, producevano figure intellettuali pubbliche che usavano un linguaggio ibrido destra/sinistra in cui il sovranisno o l’antagonismo sceglieva la categoria di nazione per dare volto e forma  all’immagine di amico/nemico. Ma anche, per esempio avevano un cultio della morte esemplare, che nell’immaginario aveva pounti di condiviusione profondi con la “bella morte”.

Un insieme di elementi che producono spesso idee senza parole funzionali a una sintassi sociale autoritaria, ma anche, appunto corrispondenti a una sinistra che spesso non si differenzia da quel cosmo culturale e che fa suo quel linguaggio, le sue immagini, le sue parole.

Parole come Libertà, giustizia, rivoluzione che spesso proprio perché introiettate come lemmi senza progetto, ma assunti in  sé come idee senza parole, producono, nel tempo lungo, trasformazione, passaggi sinistra-destra, se non nell’asse dichiarato politico, certo  nell’immaginario politico che propongono, nella interscambiabilità di posizioni e di affermazioni, di componenti che sono nei programmi politici, nel linguaggio, nell’immaginario, nelle letture di formazione  di forze che formalmente si dichiarano collocate su assi opposti dello schieramento politico. E questo perché appunto sono invece il risultato proprio di quella macchina delle idee senza parole che costituisce quel generatore di identità che Furio Jesi mette a fuoco con efficacia e chiarezza in Cultura di destra. E che anche per questo vale la pena riprendere in mano. Un libro che il tempo non ha consumato.

 

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