Storia
Ratko Mladic, la guerra ai civili e la nostra memoria
La condanna dell’ex generale Ratko Mladic all’ergastolo dal tribunale penale internazionale dell’Aja per i crimini nell’ex Jugoslavia, in particolare a Srebrenica, ha il gusto di un gesto riparatore. Non ridà la vita alle vittime, ma le riconosce come vittime, come vite che sarebbero state degne di essere vissute. Non è poco. Insieme ci obbliga a riprendere le misure sulla dimensione della guerra, in questi venti anni. Se è vero che a Srebrenica è cominciato un modo di fare la guerra, allora la condanna di Mladic non è solo un gesto riparatore. Parla al nostro presente e chiede che ci sia un diverso futuro.
Ripercorriamo velocemente ciò che accade a Srebrenica nel luglio di più di 20 anni fa.
È l’estate del 1995 la guerra che nei Balcani ormai dura da quattro anni sta per concludersi. Bisogna raggiungere sul terreno i patti che i “signori della guerra” (il serbo Milosevic, il bosniaco Izetbegovic e il croato Tudjiman) hanno sottoscritto con il tacito assenso della comunità internazionale: il 51% del territorio della Bosnia ai croato-musulmani e il restante ai serbo-bosniaci.
Ma la realtà sul terreno non è come una torta che si può tagliare e dividersi le fette. In mezzo a quel territorio ci sono le “zone protette”, enclave musulmane in un territorio completamente in mano ai serbo bosniaci e sotto protezione ONU. Per raggiungere l’obiettivo occorre eliminarle. Non si tratta di invitare gentilmente i musulmani di spostarsi. Si tratta di mandarli via con la forza.
A lungo si trascina un “tira e molla” ma il 30 maggio del 1995 l’ONU pubblica un documento, dove si dichiara che i Caschi blu possono lasciare le “zone protette”. E’ il segnale che l’operazione si può fare.
Gli uomini dell’esercito serbo bosniaco che l’11 luglio entrano a Srebrenica al comando di Ratko Mladic, dopo il bombardamento della città iniziato il 9 luglio, hanno come obiettivo e come compito la pulizia etnica. Sul terreno, anzi sottoterra in luoghi sparsi, restano 8000 uomini, gli altri (donne vecchi e bambini), scappano se ce la fanno, altrimenti subiscono violenze e stupri.
Pensavamo noi in Europa di esserci lasciati quelle scene alle spalle. Pensavamo che queste fossero nel passato e soprattutto ai confini dell’Europa: a Katyn, nei territori nebbiosi e freddi della Polonia e dell’Ucraina e lungo i bordi delle molte fosse in cui sono stati sterminati ebrei, russi, polacchi, spesso con la complicità delle popolazioni locali che in quelle scene riversavano odio, invidie, gelosie. Ci sbagliavamo.
Con altri nomi, quelle storie e quelle vicende sono tornate in quell’estate 1995.
E’ tornata ad essere vera la scena della caccia singolare e “mirata” all’uomo in base alla sua nascita e alla sua fede. E’ tornata la scena dello sterminio consumato e realizzato come macchina primitiva in cui si deridono le vittime, si consuma molto alcool per sopportare l’odore del sangue, quello dei corpi che si decompongono, i suoni del pianto, delle urla, delle imprecazioni. Intorno, intanto si violentano le donne, si deridono i vecchi, si abusa dei minori.
Ma in questi venti anni sono scene che abbiamo cercato di rimuovere o di tacitare. Bisognerebbe tentare di capire perché.
Si poterebbe osservare come ogni volta nella geografia delle stragi che costituisce anch’essa un modo di scrivere la storia d’Europa e di cui sarebbe istruttivo possedere un atlante storico, ogni volta la figura principale sia il “nemico del popolo”.
Quella figura non si costruisce velocemente, è sempre il risultato di un lungo esercizio retorico, dove lentamente quelle persone concrete non hanno più una fisionomia individuale. Ovvero cessano di esistere come persone, vengono private della loro storia reale e sono trasformate in simboli. Perciò possono essere cacciate, tolte di mezzo. E’ una spiegazione, ma non è l’unica. Va comunque supportata con una cosa più concreta.
E’ sempre difficile elaborare il senso di colpa o costruire intorno a una condizione di contrizione una consapevolezza politica, culturale. Senso di colpa e senso di responsabilità non stanno insieme. La prevalenza del primo fa in modo che non si misuri e non si prenda carico dei contenuti, delle domande e della necessità di fornire risposte incluse nel secondo. Così è ancora oggi per noi.
Nel luglio del 1995 non si è solo ripetuta una scena di codardia già avvenuta a Monaco nel settembre 1938 quando le potenze democratiche europee lasciarono che la Cecoslovacchia si arrangiasse, oppure una scena d’imbarazzato mutismo rispetto all’appello di soccorso che Radio Budapest lanciava a noi nella mattina dei primi novembre del 1956. Lì, in quei giorni, nel luglio 1995 è anche morto un pezzo di Europa.
L’Europa come progetto di società aperta è morta sulle colline della Bosnia Erzegovina quando ha deciso nei fatti che una parte dei suoi popoli non erano degni di difesa. Che i musulmani di Bosnia, abitanti in Europa da molti secoli, non erano suoi cittadini, che la loro vita non era un pezzo della sua storia. E dunque non valeva la pena interrogarsi sul da fare.
Forse lì è accaduto anche qualcosa di più che ancora non sappiamo valutare ma su cui è lecito farsi delle domande. In riferimento a due questioni, almeno.
La prima. Non è forse passato per quella scena un lento distacco tra mondi che oggi dicono di combattersi in nome di una “guerra di civiltà”. Sempre più spesso, da allora, le guerre si costruiscono su simboli, su retoriche, dove i civili sono le prime vittime. E in quella guerra ciò accadde con insistenza e più volte. E’ per questo che non era l’ultima guerra tribale ma l’avvisaglia circostanziata e territorialmente definita di una nuova guerra, quella in cui siamo immersi oggi. Quella della guerra ai civili.
La seconda. Quando nel maggio del 2011 è stato catturato Ratko Mladic, molti, ricordando lo sterminio di Srebrenica del luglio 1995, hanno detto che Srebrenica ci aveva “rivelato” Auschwitz. Ne dubito. Noi di fronte a Srebrenica abbiamo scoperto un’altra cosa, ma non siamo in grado di dirlo perché dovremmo fare i conti con il disagio della memoria.
Srebrenica 11 luglio 1995, è la dimostrazione che sapere che sta accadendo qualcosa, vederlo persino, non impedisce che quella cosa non solo sia possibile, ma che avvenga. E soprattutto abbiamo scoperto che dopo, noi, non i carnefici, siamo ancora in grado di vivere senza sentire la vergogna. A Srebrenica, in breve noi abbiamo scoperto, ma non siamo disposti ancora a riconoscere, che non è vero che lo sterminio avviene perché nessuno lo sa e che se avessimo saputo, non sarebbe potuto avvenire. Ma che lo sterminio avviene, lo vediamo in diretta e complessivamente continuiamo a pensare che sono “fatti loro”. Comunque che non ci riguarda.
Srebrenica 11 luglio 1995. Uno sterminio che è avvenuto non mentre tutti eravamo in vacanza, ma in un giorno infrasettimanale (per la cronaca era martedì), a poca distanza di qui, costituisce un evento ineludibile per riflettere sul senso della memoria e sulla sua funzione. Non era la prima volta. Quindici mesi prima era già avvenuto in Rwanda. Anche allora era prevalso il silenzio.
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