Storia

Radicali e conservatori di cento anni fa, e l’assalto al Campidoglio

19 Febbraio 2021

Il comune di Monaco – il suo assessorato alla cultura – è molto attento, da alcuni anni, a promuovere una serie di iniziative che hanno a che fare con la “Erinnerungskultur”, la cultura del ricordo. Non si tratta di iniziative astratte o isolate, quanto di programmi culturali imperniati sulla storia della città che cercano di rileggerne pubblicamente il ruolo nella storia del ‘900. A loro volta, questi programmi hanno a che fare da un lato con la tradizione tedesca della “politische Bildung” – una sorta di educazione civica che non ha paura della parola “politica” e che di solito viene gestita, in primo luogo, da fondazioni e associazioni indipendenti o legate ai partiti (sovvenzionate statalmente, di norma) – e dall’altro a un percorso di presa di consapevolezza del proprio passato al tempo del nazismo. Contrariamente a quanto si crede, infatti, quello che in italiano si definisce, con un’espressione molto inadatta e vagamente religiosa, il “fare i conti” con il passato nazista è in Baviera – qui, dove il nazismo è nato (Monaco) e dove aveva previsto la propria ribalta teatrale (Norimberga) – un affare relativamente recente, che ha a Monaco un discrimine molto preciso nella data del 30 aprile 2015, e cioè l’inaugurazione, nel cuore del cuore del quartier generale del nazismo, dello NS-Dokumentationszentrum. La data è importante: segna il  settantesimo anniversario della liberazione della città e l’introduzione, forse per la prima volta da queste parti, dello stesso concetto di “liberazione”, cui noi italiani siamo invece affezionati da tempo: e chi purtroppo non c’è affezionato ci ha fatto più o meno l’abitudine. Questi programmi (manifestazioni teatrali, musicali, artistiche, e tanti dibattiti di alto livello) non aspirano a sostituirsi a un manuale di storia, ma a fare della storia cittadina una cosa il più possibile viva nella popolazione non accademica, anche rendendo note al pubblico storie di altri Paesi: ad esempio, quest’anno abbiamo lavorato insieme sul diverso trattamento che l’attentato alla stazione di Bologna e l’attentato all’Oktoberfest, entrambi del 1980, hanno avuto nel dibattito pubblico del tempo e nella memoria collettiva. In generale, si tratta di un esperimento molto interessante: sulla sua replicabilità in altri contesti, non saprei.

Questo lungo preambolo per dire che l’epifania del 2021, con gli assalti al Campidoglio di Washington, mi ha trovato intento al libro Conservatives and Radicals in Interwar Europe, a cura di Marco Bresciani (Università di Firenze), uscito a fine 2021 da Routledge ma di cui è prevista una versione italiana l’autunno prossimo. La coincidenza, e tutto il retroterra di cui prima, mi hanno fatto pensare che, forse, fra qualche tempo, quella data potrebbe essere considerata l’inizio della storicizzazione di quel complesso fenomeno che negli ultimi anni abbiamo definito – di nuovo: con molte improprietà che derivano in sostanza dalla difficoltà a rinunciare a un temine pigliatutto (Franzinetti, nel volume) – “populismo”. Ora: avendo un qualche studio storico alle spalle, sono molto lontano dal pensare che le scene, tanto più drammatiche proprio perché esteticamente grottesche, come sono i mostri, avessero a che fare con le destre nazionaliste di cui si parla nel libro: eppure, in tutti i saggi, vi sono alcuni leitmotiv che tornano, e che è utile avere in mente anche quando si guardano le dirette su internet.

Il primo è la delegittimazione delle istituzioni attraverso la nazione: su cosa si fonda il nostro accettare come normativi gli atti di un parlamento, l’esistenza di un presidente che turna, un sistema di giustizia e pena? In questo senso, il nazionalismo (il credere che esista qualcosa come la “nazione”, e darvi un significato sacrale, non passibile di dubbio) è, e resta, un collante fortissimo. Nel periodo preso in esame dal volume, questo ha a che fare con il crollo dell’architrave asburgica (Beller) così come con la nascita, a est, di uno stato sovranazionale, ma russocentrico, nell’Unione Sovietica (Zaitsev, sul nazionalismo ucraino), e anche, in minore ma con più caos se possibile, in Jugoslavia (Biondich).

Il secondo è l’importanza della questione agraria (Bresciani), e in generale della sottorappresentazione della provincia nello stato borghese: si tratta di elementi di dibattito che risalgono all’Atene di Pisistrato, ma che si ripropongono carsicamente e sotto nuove forme di tanto in tanto: questo periodo è uno di questi tanto, come del resto reso molto evidente proprio dalle elezioni americane a partire 2004: vince chi vince in campagna.

Terzo, il rapporto assai più simbiotico di che si pensi tra radicalismo ed establishment, nella misura in cui il radicalismo, una delle cui caratteristiche è sempre l’individuazione di un nemico, crea linee di dialettica impreviste, spesso sghembe: nella Polonia dopo la prima guerra mondiale – un vincitore assoluto, in termini di guadagni territoriali – l’odio per il russo, per il tedesco, per l’ebreo serve da basamento di legittimazione per il potere per una nuova classe dirigente cresciuta nelle fila di movimenti che oggi definiremmo antagonisti (Krzywiec), per non parlare del clero (Albanese). Laddove la saldatura è meno perfetta o dove comunque continua ad esistere un movimento conservatore prefascista, esiste la possibilità di venirne fuori meglio (Kennedy, sulla Francia).

Di nuovo: nessuna attualizzazione, solo prospettive da considerare. Il passato è stato un altro presente, prima di essere il “nostro” passato. Quello che ho trovato più interessante del volume sono infatti altri due elementi. Il primo è la prospettiva autenticamente europea, che va oltre le tendine metalliche mentali della guerra fredda e presenta le connessioni e le influenze tra il fascismo italiano, gli ustascia, i nazionalisti rumeni o greci, e molti altri. Il secondo è l’attenzione, molto più che alla definizione delle ideologie, alle persone che in base a esse cercano di prendere il potere, o semplicemente di trarre un vantaggio: persone non di primo rango, spesso, per provenienza e per carriera: ma che svolgono il ruolo fondamentale di cinghie di trasmissione di ordini e movimenti in costruzione.  Imparare chi fossero Karl Hermann Frank o Max Hildebert Boehm, come si formarono e arrivarono a essere quello che furono, spiega tantissimo, senza dover immaginare un movimento che si estende perché quello richiede lo spirito del tempo. Penso sia una lezione di metodo da tenere sempre a mente. Chi. Si costruiscano iniziative di memoria storica o si legga il giornale.

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