Storia
Quel 25 luglio del 1943
Che dei tre totalitarismi più importanti del novecento – mi riferisco al comunismo, al fascismo e al nazismo – proprio il regime imposto all’Italia da Benito Mussolini fosse il più debole lo dimostra la vicenda del voto del Gran consiglio del fascismo, del 25 luglio del 1943 che costrinse il duce a dare le dimissioni.
In quella seduta, con l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, venne infatti ripristinato l’art.5 dello Statuto albertino riassegnando il comando supremo delle forze armate al sovrano che, proprio in forza di quella norma costituzionale, ne era il legittimo titolare.
Mentre comunismo e nazismo avevano travolto gli ordinamenti costituzionali che li avevano preceduti sostituendoli con i propri, il fascismo andato al potere era stato costretto, invece, a mantenere l’impianto costituzionale del Regno d’Italia, limitandosi ad operare degli aggiustamenti che avevano solo paralizzato la vitalità di alcune delle sue norme fondamentali.
E questo perché i nuovi governanti avevano dovuto fare i conti con un potere forte, quello della monarchia che poteva ancora contare sulla fedeltà di importanti segmenti degli apparati statali. Il fascismo, dunque, nonostante la sua forza eversiva degli ordinamenti democratici per consolidarsi dovette adeguarsi ad un tacito compromesso con casa Savoja.
Questo significa che, la monarchia, non può che essere considerata corresponsabile di quanto avvenuto nel lungo e tragico ventennio. Proprio tenendo presente tali queste considerazioni non può destare alcuna meraviglia il repentino crollo del regime avvenuto come conseguenza dell’ordine del giorno Grandi.
Ma andiamo ai fatti. La seduta del Gran Consiglio, voluta dallo stesso duce per fare il punto sulla drammatica situazione militare dopo lo sbarco in Sicilia che aveva messo a nudo la fragilità delle difese nazionali, fece emergere quel dissenso che covava da mesi dentro i ranghi del regime, infatti alcuni gerarchi, realisticamente, cominciavano a porsi il tema dello sganciamento dell’Italia dall’alleanza con la Germania e della richiesta di una pace onorevole e per questo motivo avevano avviato dei contatti riservati.
Di questi malumori Mussolini era sicuramente al corrente ma forse ne aveva sottovalutato il peso, si considerava troppo forte per temere quanto invece si verificò in quella seduta. A meno che una evidente stanchezza non l’avesse fatto rassegnare alla sconfitta, certo è che il duce non fece molto, come avrebbe potuto, per opporsi alla decisione di mettere in votazione l’ordine del giorno Grandi che fu votato a maggioranza dei voti dei presenti fra i quali, sorprendente, quello del genero Galeazzo Ciano.
Qualcuno ha supposto che Mussolini non avesse voluto in quell’occasione forzare la mano perché era convinto di potere contare sulla solidarietà del Re da cui si recò dopo l’approvazione dell’ordine del giorno per ragguagliarlo di quanto era accaduto. Il duce infatti immaginava che Vittorio Emanuele III, il quale non aveva mai fatto valere nei suoi confronti la titolarità delle proprie prerogative costituzionali e che lo aveva assecondato perfino nelle decisioni più scellerate, mi riferisco alla approvazione delle leggi razziali, gli avrebbe riconfermato la fiducia e, con quell’atto, legittimato in modo forte, il suo ritorno alla guida del governo del Paese.
Non si aspettava che il Re lo avrebbe dimissionato – nel decreto reale a firma del sovrano si legge di “dimissioni a sua richiesta” – e che, all’uscita dal colloquio, con una decisione giuridicamente dubbia, l’avrebbe fatto arrestare. In quell’occasione, forse la più drammatica della sua storia politica, colui che era stato, col consenso della gente, il padrone del Paese, si può ben dire che avesse clamorosamente sbagliato i suoi calcoli.
L’arresto del Capo del governo e la nomina del generale Pietro Badoglio, a capo di una compagine di ministri tecnici e militari, segnò la fine del fascismo e delle istituzioni speciali che lo avevano sorretto. Da ciò se ne potrebbe dedurre che un fascismo senza Mussolini non poteva esistere.
A questo proposito, parlando ad un raduno di militari, il neo capo del governo, Pietro Badoglio poteva correttamente affermare che: “Il fascismo non è stato rovesciato da noi, da sua maestà o da me; il fascismo è caduto non per forza esterna, ma per la sua crisi interna; non poteva resistere più… Lo hanno abbattuto gli stessi componenti del Gran Consiglio… che votarono, la sera del 24 luglio, a maggioranza contro Mussolini e ne segnarono la fine. Finalmente!»
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