Giustizia
Quel 1993 visto da un tredicenne
Quando rivedi vecchie foto capita sempre di rivivere non il momento immortalato, ma un momento precedente o successivo, un momento di cui non ci sono foto, ma i cui tratti sono nitidi, ben più nitidi rispetto a una foto, quasi fosse una visione tridimensionale. Sfogliare vecchie foto serve a quello: andare al di là dell’immagine, e usarla per ricavare umori, odori, sensazioni di chi in quella foto non c’è.
In queste settimane pare sia iniziata un’operazione di grosso revival sul biennio d’oro 1992-1993, sulla Procura di Milano e sulla fine della Prima Repubblica, abbattuta a suon di schioppettate da quell’improvvisa voglia di Mani Pulite che investì l’apparato politico nazionale. Ovunque si rincorrono stralci di memoria appesa a quel filo immaginario d’un paese che sfoglia l’album dei ricordi, finendo per dire di non assomigliare più a quelle linee fisionomiche che invece ci sono ancora.
La serie tv messa in onda da Sky, “1992”, sembra aver contribuito non poco alla rispolverata del “come eravamo”. Per carità, la serie in sé per ora ha prodotto più critiche che altro, avvitata com’è in difficili interpretazioni di una trama fin qui apparsa poco convincente soprattutto su un piano storico. Quel che però comunemente viene identificato come “immaginario collettivo” ha contribuito a far tornare in auge il periodo reale, al netto delle idee e delle liaison del soggettista-giornalista Accorsi, ossia quell’inizio di anni Novanta dalle temperature roventi, tra bombe, tangenti, e inviati dal Palazzo di Giustizia in quel corso di Porta Vittoria diventato con gli anni simulacro dell’intersezione tra magistratura e politica, tra giustizia e ingiustizia, tra un prima e un dopo, quasi fosse un porta interspaziale.
Diciamo che per chi come me ha superato la trentina, il 1992 era l’anno in cui l’adolescente iniziava a bussare la porta alla casa del bambino. Dodici -o tredici- anni è un’età strana, nel senso che potresti essere bimbo ingenuo o caustico adulto a seconda dei momenti, il fatto è che non sei tu a deciderlo ed è proprio quel terribile conflitto a trascinarti nello stato confusionale e irrequieto della prima adolescenza.
Terremoto fuori e terremoto dentro, per gli adolescenti degli anni Novanta. Quelli che conoscevano Andreotti, Forlani, Craxi, De Mita, La Malfa non per ricostruzioni storiche, ma perché li sentivano distrattamente ogni sera al tiggì, distrattamente, come ogni ragazzino fa. Quei volti che ora si studiano negli atti di Storia di questo Paese e appaiono lontanissimi, per noi adolescenti dei Novanta erano semplici politici che scorgevi in tivvù ogni tanto, aspettando che fosse pronta la cena. Come adesso si fa coi vari Renzi, Grillo, Salvini.
Durante i primi mesi d’inchiesta il nome che sicuramente attirò la mia attenzione fu “Pio Albergo Trivulzio”. Il Pio Albergo Trivulzio è il ricovero per anziani teatro del primo arresto, quello di Mario Chiesa. Era il febbraio del 1992 e da lì partì l’onda che tutto o quasi travolse. A me però Pio Albergo Trivulzio sembrava un nome proprio di persona, tant’è che ero arrivato anche a raffigurarmelo con invidiabile definizione: a rinfrescarmi la memoria ci pensavano le eco che la stampa lasciava libere 24h su 24: “Pio Albergo Trivulzio”, “Pio Albergo Trivulzio”, “Pio Albergo Trivulzio”. Il Pio Albergo Trivulzio era ormai posto rinomato, molti pensavano fosse realmente un hotel a cinque stelle, io no. Io me lo immaginavo un grosso signore, aristocratico, libertario ma osservante, educando ma progressista, dal ghigno solidale ma dal piglio severo. Uno di quei personaggi conflittuali che si incontrano spesso nei romanzi, e che si scorgono con un po’ più di difficoltà nella vita quotidiana.
Ricordo ad esempio gli insulti a Craxi, liberi, anzi oserei dire sdoganati. Qui si era già al 1993, perché l’anno prima -quello di Accorsi- aveva visto poi fin troppi fatti accavallarsi, tant’è che il reale proscenio primaverile-estivo fu rimandato di 12 mesi. Gli insulti a Craxi, dicevamo. Liberi. Unitari. Io non lo insultavo perché preferivo rivolgere il mio odio preadolescenziale verso universi a me più noti. Craxi lo conoscevo perché di politica mi interessavo come se ne può interessare un ragazzo di 12, anzi di 13 anni, oddio forse un po’ di più rispetto alla media ma insomma, quelli erano problemi miei, e comunque non avevo sufficiente confidenza per insultarlo. Vedevo gli adulti farlo, vedevo tutti farlo, ogni tanto pensavo “l’ha fatta grossa”, ma non credevo che il reato garantisse tutto quel frastuono. Per me si andava in carcere se ammazzavi, se rapinavi una banca. Non se prendevi soldi dagli imprenditori. Mio padre tentò di spiegarmelo, raccontandomi del finanziamento ai partiti e della sua storia, per come la conosceva lui. Rimasi poco convinto, perché vedevo mio padre poco convinto, perché vedevo che non tutti erano convinti.
Ci vollero diversi anni prima di conoscere la storia di Enrico Mattei e dell’articolo di Montanelli che con un’inchiesta pubblicata sul Corsera tra il 13 e il 17 luglio del 1962 lo accusò di finanziare i partiti politici: da lì Mattei disse che i partiti politici per lui erano “come i taxi: finita la corsa, pago e scendo”.
Solo nel 2001 Indro spiegò così quell’attacco:
Non mi fu chiesto assolutamente nulla. Fui io che proposi e dissi al Corriere badate bene che questo vi costerà la pubblicità dell’Eni. La pubblicità dell’Eni era molto forte in tutti giornali. Era così che lui anche aveva la complicità della stampa italiana perché pagava delle grosse somme per la pubblicità dell’Eni. E ci fu una riunione al Corriere in cui io dissi, guardate bene quanto vi rende la pubblicità di Mattei all’anno? Centinaia di milioni. Se siete disposti a perderli, io sono pronto a fare quest’inchiesta – che m’interessava dal punto di vista politico. Cioè la mescolanza fra gli affari e la politica. Questo era il pericolo che io vedevo. E debbo dire che era giusto che lo vedessi.
Questa però non è un’analisi storica di un fenomeno che volentieri lascio fare ad altri, ma un’esperienza mistica tra un ex dodicenne ormai tredicenne e il sacrificio della Prima Repubblica, con quella strana sensazione sismica ma onirica, come se ci fosse una consapevolezza d’immunità dalla scossa, come se fosse un cambiamento senza alcun pericolo oggettivo per la propria incolumità. Solo anni dopo avrei scoperto la mia naturale diffidenza verso i cambiamenti guardati dalla finestra, allestiti a mo’ di parata. Ma questo è un altro discorso, queste sono valutazione di un ultratrentenne che ha passato il ’92, il ’94, il ’99, il 2001, il 2008 e il 2015. Torniamo un attimo al tredicenne, perché è lì che si nascondono gli umori di un’epoca.
Si sparò Raul Gardini, era il 24 luglio del 1993, il giorno dopo. Più o meno l’ora di pranzo. Io ero in spiaggia, in Calabria. Dal mare a casa ci riaccompagnava un signore sulla sessantina, che aveva a disposizione una grossa jeep e faceva servizio navetta, che a raccontarlo mi sembrano davvero tempi andati, come se stessi parlando degli anni Sessanta. Mi fecero accomodare davanti, l’autoradio era accesa e il giornale radio gracchiava commenti, notizie, ultimi arresti, scandali. Quel giorno si parlava di Gardini, e io per carità pur non addentrandomi nella faccenda, sapevo bene chi fosse Gardini. Chi è stato bambino in questi anni ricorderà Marchionne, Farinetti e Briatore, io bimbo degli anni 80 ricordavo Gardini, De Benedetti, Berlusconi, Benetton. Questi gli imprenditori dell’Italia della mia infanzia, tant’è che ebbi subito la netta sensazione della testa caduta. Ora, un tredicenne, per quanto siano approfondite le sue conoscenze, non può ancora capire quale sia il tonfo di una testa caduta dall’alto, e di che portata sia l’evento. Lo può solo intuire, come io intuivo qualcosa in quella macchina, sotto quel caldo, in quell’estate così strana in cui giocavo a immedesimarmi nelle persone. Il signore corpulento alla guida, a torso nudo, mi riportava a casa e commentava caustico, rincarando la dose su Gardini. C’era un odore acre in quella jeep, l’odore acre della gente che sta in spiaggia a sudare. C’era aria pesante, un uomo si era suicidato ma non sembrava interessare a nessuno. Anzi, quasi come fosse una buona novella, o un passaggio inevitabile: “e se Gardini fosse mio padre?” Pensavo, mentre faticavo a respirare. Anni dopo avrei capito che Gardini non sarebbe mai potuto essere mio padre, in questa vita. Ma questa è un’altra storia ancora.
Quel giorno Gardini, tre giorni dopo Alessandro Ferrari, Agente della Municipale di Milano morto -insieme ad altre 4 vittime- nell’attentato di via Palestro. Anche di lui pensavo: “e se fosse mio padre?”, che intanto era a Milano, anche lui, a lavorare, mentre io ero al mare. Avevo scelto quell’agente della Polizia Municipale -di cui ricordo ancora la foto- per incasellare via Palestro, avevo scelto Gardini per ricordarmi Mani Pulite. Non so perché, fu automatico.
D’altronde un tredicenne rispetto a un adulto ha un grande vantaggio: è capace di pensare senza pensare a cosa pensare. Questo vuol dire che a tredici anni i scegliei, ma non si sceglie di scegliere: è tutto automatico. Io ho fatto mie due vittime, ho scelto due morti sul campo, in quel luglio torrido, dove il caldo opprimeva e non si aveva tempo per pensare. Oggi nell’album di quel 92-93 c’è Di Pietro, c’è Borrelli, c’è Dell’Utri, c’è De Lorenzo, c’è Riina. C’è persino Accorsi, che in quel ’93 non aveva ancora incontrato il Maxibon.
Poi, in fondo al tunnel, dove le luci non arrivano, ci sono quelli che non entrano nelle foto. Fortuna che ci sono i tredicenni.
Devi fare login per commentare
Accedi