Storia

Quanto pesano i caratteri nazionali nella crisi greca? Solo stereotipi?

29 Giugno 2015

L’aggettivo “levantino” riferito al popolo greco  è apparso nettamente  in questo articolo sul Sole 24 ore di Adriana Cerretelli dove si osserva che l’Europa ha continuato «a pretendere da un paese notoriamente levantino e disastrato un comportamento virtuoso e mitteleuropeo». Già.

Probabilmente i padri fondatori nel progettare l’Europa unita, dopo guerre e olocausti inenarrabili, hanno pensato giustamente  più al  futuro che al passato, a un’Europa da costruire, dal “carattere” unito se non unico, ove le omogeneità anche culturali fossero prevalenti sulle diversità o piuttosto  nella speranza che in questo crogiolo si sciogliessero i singoli “caratteri nazionali”. Sbagliarono nel trascurare i fattori inerziali della storia mentale-culturale dei singoli paesi e nel credere che, giunti infine in Europa, un  tedesco avrebbe cominciato a pensare  da europeo e non da tedesco, e un greco avrebbe cessato di pensare e di agire da greco.

Dei greci, spesso senza distinguere tra un Karamanlis e un Epitetto, si ama ripetere che sono i padri della nostra civiltà e che la stessa Europa prende il nome da un mito greco. Invece, facendo appello al nostro senso storico  si capirà subito che i greci di oggi  sono discendenti dei greci di Pericle tanto quanto lo sono gli iracheni degli antichi sumeri o gli attuali centurioni romani di cartapesta che si aggirano attorno al Colosseo i discendenti di Giulio Cesare. Ci sono delle fratture nella storia, se non vengono colte succede che tutti siamo discendenti di tutti e io sono discendente diretto  di Gorgia di Leontini. Come nel Maghreb nell’VIII secolo sono calati i musulmani arabi che hanno eliminato l’antica civiltà prima cartaginese e poi romana e in ultimo bizantina, così in Grecia prima gli stessi bizantini – dei greci illanguiditi e dialetticamente smarriti in “bizantinismi”, altro che dialettici classici socratici – e poi soprattutto gli ottomani (suol suolo greco dal 1453 al 1821)  hanno cancellato ogni traccia della Grecia classica. “Dove i Greci erigevano il Partenone, i turchi fumavano la pipa”, diceva Hegel. Questi greci sono in verità dei turchi che parlando greco si credono di essere Aristotele.

Ma esistono i cosiddetti caratteri nazionali? O sono solo dei biechi  stereotipi? Sarà uno stereotipo dire che gli italiani mangiano gli spaghetti, i tedeschi bevono birra e gli scozzesi suonano la  cornamusa? Sono mezze verità o mezze falsità? O semplicemente dei luoghi mentali ove adottare “giudizi di prevalenza”:  non “tutti”  e neanche “almeno uno”, ma “molti”? Fu il nostro Carlo Goldoni a inaugurare le narrazioni sui “caratteri nazionali” con una commedia “di carattere”, “La vedova scaltra”, in cui metteva in scena un italiano, un inglese, uno spagnolo e un francese in competizione per la conquista della mano di una bella vedova. Bel copione brillante, ma anche preziosa informazione sulle prime comparazioni che si venivano facendo in quell’Europa – già avvezza ai paralleli antropologici col “buon selvaggio” e alle prese con marce “turche” e lettere “persiane”- , sui costumi intraeuropei, ossia sui “caratteri nazionali”.

Le singolarità di un popolo sono l’oggetto di queste osservazioni come, ai giorni nostri, accade nelle più comuni barzellette dove, data una situazione tipica, vengono chiamati a confrontarsi l’italiano, il francese, l’inglese, il tedesco di turno e ognuno “risponde” secondo una tipizzazione del carattere, che spesso è un pregiudizio o uno stereotipo, ma che nell’intenzione di chi racconta è un tentativo seppur rudimentale di dirci qualcosa di profondo, di “noumenico”, di quei popoli chiamati in scena a recitare il proprio carattere. Per altro verso, gli antropologi culturali e gli studiosi anglosassoni seguaci dell’anthropological history cercando di coniugare il momento diacronico (nel nostro caso i greci o i  tedeschi  nella storia) con quello sincronico (il “tipo” ovvero il greco, il tedesco) avvertono che «luoghi comuni e stereotipi costituiscono per lo storico non tanto un ostacolo quanto un aiuto in vista della ricostruzione delle regole o norme della cultura», e che, «il termine ‘stereotipo’ rappresenta la connotazione spregiativa di ciò che i sociologi e gli antropologi preferiscono chiamare ‘modello’; in altre parole, è un’utile semplificazione impiegata per capire la complessità della realtà sociale. Così possiamo includere fra gli ‘stereotipi’ o ‘modelli’ il sistema feudale, il capitalismo, la cultura della vergogna, la società spettacolo ecc. Si potrebbe persino aggiungere l”inglese’, o l”italiano’, quando tali termini vengono usati in riferimento agli stili o al comportamento». (Peter Burke, “Scene di vita quotidiana nell’Italia moderna”, Laterza, Bari 1988, p.X.)

Uno dei saggi più acuti che ho letto sugli stereotipi   è quello di Walter Lippmann (1889- 1974) un brillante e colto giornalista liberal americano. In buona sostanza Lippmann dice (in «L’opinione pubblica» Donzelli, 2004; il saggio è del 1922) che la nostra conoscenza è limitata, frammentaria e poggiante quasi tutta su stereotipi, ossia generalizzazioni sommarie,  forzate e raffazzonate costituite da «tipi accettati, schemi correnti, versioni standard». La nostra conoscenza  delle persone, ma anche dei fatti o dei luoghi,  è spesso  tributaria di una visione precostituita. Quell’uomo  è un uomo d’affari e noi degli uomini di affari  abbiamo un concetto che spesso  è un preconcetto, e perciò  «processiamo» quella persona secondo questa pre-visione, la quale precede e condiziona la visione stessa dell’uomo d’affari che abbiamo davanti a noi.  «Non c’è il tempo né la possibilità per una conoscenza profonda. E così ci limitiamo a notare un tratto che caratterizza un tipo ben conosciuto, e riempiamo il resto dell’immagine grazie agli stereotipi che ci portiamo in testa». Ora, sembrerebbe che questi stereotipi, che sono  certamente un intralcio alla «vera» conoscenza, in realtà  costituiscano una sorta di foresta di simboli e immagini che arredano la nostra mente e tengono viva la nostra immaginazione: sono come compagni di viaggio inopportuni e festosi delle «vere » idee, dei «veri» pensieri,  tanto che «l’abbandono di tutti gli stereotipi, per un atteggiamento completamente innocente difronte all’esperienza impoverirebbe la vita umana».

E dunque? Lippmann spiega  che se è impossibile sopprimere gli stereotipi o farne a meno nel semplice processo conoscitivo,  tuttavia la questione  della loro subdola capacità di interporsi tra il nostro io e il reale nel processo conoscitivo e di installarsi nella nostra mente,  dipende dalla loro qualità. Occorre verificare quindi  se essi sono del tutto ingovernabili e ci hanno preso, per così dire, la mano, anche grazie alla scarsa qualità della nostra educazione,  oppure se  i nostri  superiori  codici culturali e la nostra generale filosofia del mondo sono in grado di rintuzzarli, modificarli di buon grado  facendoci capire che sono quel che sono, ossia dei semplici pre-concetti, pre-giudizi.

Ovviamente, a me sembra, che occorra lavorare nella «sfera superiore» delle idee, dei codici, della visione generale del mondo. Ma qui dovremmo essere in grado di sapere fare la storia delle nostre idee, quando esse sono entrate in noi, se hanno resistito o meno a una investigazione seria e rigorosa della nostra ragione, se e quanto siamo disposti ad abbandonare una «visione del mondo» che si è dimostrata alla distanza illusoria, fallace, e talora tenuta in vita solo per una astratta e ostinata  «fedeltà a noi stessi». Entra in gioco in questa «sfera superiore» sia dell’intelletto che della ragione (non voglio fare sottili distinzioni kantiane) la stessa qualità delle nostre idee e dei nostri codici culturali generali. Insomma, sia verso la sfera bassa degli stereotipi, laddove si formano le prime informazioni e impressioni del mondo, sia verso quella alta delle idee e dei giudizi ponderati,  dove il mondo viene adeguatamente processato, dobbiamo essere sempre insonni, vigili e armati,  come chi ha già avuto la casa svaligiata dai ladri.

Con tutte le cautele del caso abbiamo visto in questa tragicommedia di “caratteri” uno scontro anche culturale  in cui gli stereotipi tra il tipo levantino e l’algido  tedesco (a cui occorrerebbe aggiungere il feroce razionalismo contabile di Mme Lagarde)  hanno agito al di là della “visione” e direi pre-visione dei singoli interessati, che non sono stati in grado di “vedersi” come stereotipi, e quindi smussare gli angoli più acuti e correggersi in funzione europea. Si sono visti anche risvolti “romanzeschi” e cinematografici nel duello tra il  fusto  Varufakis  metà dandy e metà marxista immaginario, che scende col “chiodo” dalle moto di grossa cilindrata o fa dichiarazioni da “Stangata” e il durissimo Schäuble in carrozzella con la stizza, gli scatti, le mosse fisse, la fragilità e la  rigidità di un protagonista di un film di Hitchkock.

Certo, è stato uno scontro di contabili, di economisti, di politici,  ma anche di “visioni”, di concezioni del mondo, di habitus comportamentali, di popoli, di stereotipi. Cambia qualcosa nella soppesazione complessiva del dramma se si adotta uno o l’altro angolo visuale?

 

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