Storia
Piazzale Loreto: un nome, molte storie
Piazzale Loreto come luogo di due scene (e poi di tutte quelle che dopo il 1945 hanno connotato il rapporto tra folle e quello spazio fisico) è tornato ad essere un luogo interrogato dalla ricerca storica. Uno spazio emozionale che nel frattempo ha subito molte trasformazioni urbane a cominciare da quel distributore di benzina Esso che è il luogo materiale della scena (compare nell’immagine che accompagna questo testo, ma oggi, 2021 a Piazzale Loreto quel distributore non c’è più).
Il libro di Elisabetta Colombo, Anna Modena e Giovanni Scirocco rinnova l’indagine su quello spazio emozionale già aperto dal volume di Massimo Castoldi. Rispetto a quello consente di fare nuovi passi in più sulla base di una nuova documentazione archivistica, ma anche in forza di una domanda complessiva che il volume propone.
Ottanta anni dopo dobbiamo porci almeno tre domande intorno a Piazzale Loreto
La prima: Che cosa sappiamo di Piazzale Loreto? Poco.
La seconda: Cosa vorremmo sapere? Forse non molto perché il rischio è mettere a nudo le proprie convinzioni a-priori ed è sempre difficile, specie in questi tempi, prendere congedo dalle proprie certezze
La terza: Che cosa dovremmo cominciare a sapere? Molte cose.
Il libro di Colombo-Modena-Scirocco fornisce risposte interessanti. Tre gli affondi di indagine proposti.
Il primo è costituito da un’attenta analisi e ricostruzione documentariamente molto precisa della strage dell’agosto 1944. Acribia intorno alle fonti, ma anche attenzione a molti elementi spesso trascurati dalla ricerca stoica, dichiara Elisabetta Colombo.
La preoccupazione principale di queste pagine è infatti, “districare l’intreccio di vero, falso, finto che è la trama del nostro stare al mondo. Il passato, di cui si è inteso districare il vero dal falso e dal finto, costituisce un’eredità lacerante e divisiva, non sempre ripensata criticamente e a volte strumentalmente «ricordata» con finalità politiche e ideologiche”. Perché, precisa Colombo, “il conflitto tra fascismo e antifascismo ha trovato a piazzale Loreto uno dei luoghi cruciali e simbolici per elaborazioni e narrazioni, costruite non senza tangenze, interferenze, meticciamenti, oltre che divaricazioni.”
Promessa mantenuta.
Elisabetta Colombo propone una ricostruzione attenta e documentata degli avvenimenti che avvengono in quel luogo il giorno della rappresaglia messa in atto dalle Brigate nere con la supervisione del comando di piazza tedesco ovvero il 10 agosto 1944 (comprese delle molte scene che precedono e seguono a quella data).
Quella proposta da Colombo è una ricerca molto impegnativa e innovativa. Quel giorno sono uccise 15 persone in conseguenza di un attentato dinamitardo che provoca la morte di 10 persone tra civili e militari.
Un attentato che da nuove carte d’archivio che Elisabetta Colombo propone è attribuibile con certezza ai GAP di Giovanni Pesce. Atto che a lungo è stato taciuto proprio per il carattere non difendibile di quell’azione.
Dato che non elimina certamente il tasso di spietatezza della rappresaglia e poi della esposizione dei corpi degli uccisi da parte dei carnefici, ma che appunto si costruisce a partire da un’azione sbagliata dal punto vista della strategia militare (due bombe che scoppiano a in tempi diversi, a pochi minuti una dall’altra e che hanno l’effetto di uccidere civili più che militari).
Ma questo che per certi aspetti potrebbe apparire un attenuante, poi si rivela un dato aggravante perché la rappresaglia non è volta a individuare i responsabili, ma solo di riaffermare il proprio potere.
Scrive Colombo:
“Si uccidono degli innocenti. È la legge di guerra, si dice. La rappresaglia non colpisce i responsabili, non mira tanto a essere punitiva, quanto a seminare terrore, chiamando dei detenuti a rispondere di azioni in cui non hanno avuto alcun coinvolgimento. La scelta di dare la morte a prigionieri politici (in carcere al momento degli attacchi gappisti e dunque estranei alle azioni), per ristabilire l’ordine e riaffermare il comando, costituisce una brutale manifestazione di potenza, una strategia intimidatoria degli occupanti. Questa applicazione cieca della vendetta aspira a combattere il crescendo delle operazioni partigiane, sollevando dubbi etici nei «ribelli», e a rompere la solidarietà della popolazione nei loro riguardi. Senza processo, nemmeno sommario, i prigionieri, tutti estranei all’attentato gappista e tutti detenuti per reati politici, sono giustiziati senza ricorrere alla giustizia e senza che sia prestata loro l’estrema assistenza religiosa”.
Il secondo saggio, scritto da Anna Modena, affronta il tema delle scritture civili, soprattutto letterarie che hanno accompagnato la comunicazione pubblica della memoria sia della rappresaglia nell’agosto 1944 sia la scena, il 29 aprile 1945, dell’esposizione dei corpi dei gerarchi del fascismo in quella piazza e nello stesso luogo – il distributore della Esso – oggi non più esistente – in cui otto mesi prima, era stati lasciati per più di 24 ore i 15 corpi dei partigiani uccisi dalle Brigate Nere.
In quella violazione della dignità della morte che è contrassegnata dalla esposizione de 15 martiri partigiani, insiste, per esempio, la scrittura di Alfonso Gatto. Lo stesso senso di orrore attraversa il linguaggio di Emilio Tadini che sulla scena dell’agosto 1944 torna più volte: nel secondo dopoguerra, immediatamente a conflitto appena finito e poi di nuovo nel 1987 nel suo in La lunga notte.
La memoria di una visione che poi ritesse le fila con quella che poi lì, nella stessa piazza, si svolgerà il 29 aprile 1945 (ovvero la esposizione del corpo di Benito Mussolini e dei gerarchi uccisi) fino a dire nel 2002 a Giovanna Sicari che “Quei corpi appesi come buoi squartati e quella folla mi mettevano una strana paura. Era paura degli uomini e del loro disonore».
Una condizione che padre David Maria Turoldo esprime con parole vibranti nel1985.a Brescia nell’invito a non lasciarsi soccombere dalle emozioni, ma a riflettere attraverso le emozioni. Riprendo qui le sue parole che Anna Modena riporta
Il motto con cui noi abbiamo fatto la Resistenza era questo:
«Non tradire più l’uomo» […]. Resistenza era la scelta dell’umano contro il disumano, quale presupposto di ogni ideologia e di ogni etica personale – ciò che valeva, e che dovrebbe sempre valere, è da che parte stare; se si è, appunto, dalla parte giusta. In certe situazioni storiche, come quelle del fascismo e della guerra, io ho sempre stimato «beati coloro che avevano fame e sete di opposizione», giudizio che ritengo ancora valido, riscontrando il perdurare di sistemi altrettanto disumani. E perciò io mi auguro che la Resistenza come valore possa diventare l’anima ispiratrice delle nuove generazioni. […] Non sanno nulla del primo Piazzale Loreto: in quel giorno io ho chiesto perdono di vivere – era nell’agosto 1944. […] Il 25 aprile, quando è venuto il secondo Piazzale Loreto, e i corpi pendevano da quegli artigli, da quelle travi del distributore di benzina, ho detto: «Abbiamo fatto la Resistenza; oggi io non predico Vangelo di nessuna sorte; si stacchino quei cadaveri! Perché il cadavere, comunque, è sacro: non si gioca sui cadaveri! Staccate quei cadaveri!».
Giovanni Scirocco, infine, indaga appunto la scena del 29 aprile 1945 ovvero l’esposizione voluta dei corpi di Mussolini, Claretta Petacci, Alessandro Pavolini e altri gerarchi fascisti fucilati a il giorno prima 28 aprile a Giulino, nonché gli effetti che quella scena propone, la dimensione immediata e la memoria di lungo periodo che sono rimaste nella storia italiana.
Se qualcuno avesse voglia per davvero di misurarsi con la «guerra di memoria intorno ai luoghi» potrebbe andare a fare una «passeggiata di storia» tra Giulino e Dongo dove la memoria si fa guerra a colpi di nomi di strade, di cippi, di pietre funerarie. Ma anche come suggerisce con finezza Scirocco. nel ritorno di scrittura con cui Carlo Mazzantini in tre diversi momenti -prima in A cercar la bella morte, poi con I balilla andarono a Salò, infine con L’ultimo repubblichino, contemporaneamente ha preso le distanze, ma ha anche sottolineato la sua nostalgia, senza risolverla. Non solo perché la memoria talvolta fa brutti scherzi, ma perché i conti col passato non era nel suo progetto, chiuderli
Un tema su cui in particolare insiste Giovanni Scirocco e che richiama i tempi di quella memoria almeno in tre aspetti essenziali
Nelle ore immediatamente successive all’esposizione dei corpi dei gerarchi il tema è dato dall’atteggiamento della folla; poi dalla simbologia che nel tempo quel luogo viene ad assumere; infine nell’uso che di quella scena viene fatto a distanza di tempo e che si accompagna a un recupero della memoria del fascismo da parte di chi si fa erede di quella storia e rivendica una continuità con quel campo di idee.
Il tema, come ricorda Giovanni Scirocco, è vedere e comprendere di quale memoria stiamo parlando o forse più opportunamente come Scirocco indica, riprendendo quanto aveva proposto Aleida Assmann alla fine degli anni ’90 nel suo Ricordare, il fatto che la memoria di Piazzale Loreto diviene «luogo del trauma».
Dunque il tema del libro è gli avvenimenti di Piazzale Loreto. Anche se, come opportunamente scrive Paolo Pezzino, nelle pagine introduttive, la questione è, in realtà, di quali avvenimenti stiamo parlando.
“Per la memoria resistenziale, e più in generale democratica – scrive Pezzino – Piazzale Loreto è il luogo dove il 10 agosto 1944 vennero fucilati dai tedeschi e dai fascisti repubblicani quindici antifascisti, i cui corpi furono poi lasciati accatastati in un angolo della piazza per ore e ore, sotto il solleone estivo. Ma è probabile che, se chiedessimo casualmente ad un pubblico generico cosa è successo a piazzale Loreto, troveremmo ricorrente il collegamento fra quella piazza – anzi, un luogo specifico di essa, un distributore di benzina della Esso – ed i corpi di Mussolini, della sua amante Claretta Petacci e di altri gerarchi fascisti, lì esposti al ludibrio della folla il 29 aprile 1945, prima scaricati sul lastricato, quindi appesi a testa in giù alla pensilina del distributore. Ed è anche probabile che oggi la maggior parte delle persone, soprattutto di giovane età, non sappia collegare quel luogo ormai centrale di Milano alle vicende che vi si sono svolte”.
A dimostrazione, appunto, di come sia sempre complicato fare per davvero i conti con qualcosa se poi non prendiamo in carico la sovrapposizione di scene, l’analisi dei sentimenti e poi la narrazione che si fa storia pubblica,
Senza dimenticare che, alla fine, la crisi delle narrazioni consolidate in assenza di una narrazione che affronti i molti elementi di una scena, quelli che la definiscono in relazione a ciò che sta avvenendo, e lentamente, nel tempo, danno forma al ricordo si traduce spesso in «vulgata» in cui la storia scompare e acquistano spazio le nostalgie.
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