Storia
«Finché vivo, spero!». Perseveranza contro fatalismo
«Finché vivo, spero!».
Sono le prime parole che ci siano arrivate di Trockij. Le scrive nel 1901, a ventidue anni (sono quelle che riproduco qui sotto e che riprendo dal suo La vita è bella, Chiarelettere). Credo sia importante rileggerle oggi: per ricordarlo nel giorno della sua morte violenta, ma anche, e forse soprattutto, perché anche per coloro che non hanno niente in comune con la sua scelta politica, quelle parole dicono qualcosa.
Il rivoluzionario, più che dell’intransigenza, è la raffigurazione proprio della perseveranza, ove perseveranza significa non dimenticare il proprio impegno e tuttavia non pensare a se stessi «in missione».
Il rivoluzionario non è un «uomo in grigio», vive di passioni, di desideri. Non è una macchina per la rivoluzione, è una figura piena di volontà, che mentre riflette sulla propria sconfitta, prende le misure per iniziare un nuovo percorso. Con passione, ma anche con ragione.
Tentando di governare le sue contraddizioni e scegliendo, tra essere oppressore o eretico, di rimanere fedele a se stesso, rifiutando il fatalismo e rivendicando la scelta di esserci.
Non è il giuramento a un catechismo. E’ la convinzione che per quanto sconfitti si può ricominciare e per ciò rivendicare il diritto e la dignità di perseverare. Di «non mollare».
Poco dopo sarà Albert Camus, più radicalmente pessimista, a consegnarci l’immagine del rivoluzionario sconfitto ma non rinunciatario. È quella di Sisifo, condannato a sospingere in eterno su per un pendio un masso destinato a ricadere a valle inesorabilmente. Una raffigurazione dell’orrore che si prova di fronte agli esiti di quei percorsi su cui si è investito molto e nei confronti dei quali sarebbe forte la tentazione di desistere.
Perché, come scrive Camus, proprio nella discesa, nell’attimo stesso in cui sprofonda, Sisifo «è superiore al proprio destino. È più forte del suo macigno».
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Dum spiro spero! Finché vivo, spero! Se fossi uno dei corpi celesti guarderei questo miserabile globo di polvere e sudiciume con totale indifferenza. Ma sono un uomo. E come uomo, la «storia del mondo», che a te, divoratore di scienza, a te, contabile dell’eternità, sembra soltanto un momento trascurabile della macchina del tempo, per me è tutto nella vita! Fino all’ultimo respiro, combatterò per il futuro, quel radioso futuro in cui l’uomo, bello e forte, diverrà il padrone dell’incessante flusso della storia e lo dirigerà verso sconfinati orizzonti di bellezza, di gioia e di felicità!
Il XIX secolo ha soddisfatto sotto vari aspetti le speranze dell’ottimista, e sotto molti altri le ha deluse. È stato giocoforza per lui trasferire la maggior parte delle sue speranze nel XX secolo. Ogni volta che l’ottimista si trova di fronte a qualche atrocità, esclama: «Come è possibile che ciò accada alle soglie del XX secolo!». Quando disegna scene meravigliose di un armonioso futuro, le inquadra nel XX secolo. E ora che questo secolo è arrivato, che cosa ha portato come esordio? In Francia, la furia velenosa dell’odio razziale; in Austria, contese nazionaliste; in Sudafrica, l’agonia di un minuscolo popolo, assassinato da un colosso; nella «libera» Inghilterra, gli inni di vittoria degli avi di speculatori guerrafondai; in Oriente, drammatiche «complicazioni»; ribellioni di masse popolari affamate in Italia, Bulgaria e Romania. Odio e uccisioni, carestie e sangue.
Sembra come se il nuovo secolo, questo gigantesco nuovo venuto, sia propenso, proprio all’arrivo, a precipitare l’ottimista nel più nero pessimismo e nel nirvana civile. «Morte all’utopia! Morte alla fede! Morte all’amore! Morte alla speranza!» tuona il XX secolo con le sue salve di fuoco e il rombo dei suoi cannoni. «Arrenditi, patetico sognatore. Sono io, il tuo XX secolo tanto atteso, il tuo futuro.»
«No – replica l’indomabile ottimista –, tu sei solo il presente».
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