Partiti e politici
Perché non ci farebbe male avere un Kohl
Quando scompare un personaggio politico che ha fatto la storia del proprio Paese e che si è guadagnato sul campo i galloni di “statista”, la deriva celebrativa è sempre dietro l’angolo. Come è naturale che sia, lo strappo dell’improvvisa scomparsa oscura qualsiasi valutazione più in chiaroscuro sul suo operato, consegnando a coloro che hanno vissuto la sua epoca (o sono cresciuti all’ombra del suo mito) un’immagine monumentale e priva di spigoli. È il rischio che può correre il lettore di un qualsiasi quotidiano tedesco in queste ore, dominate dalla notizia che “il Cancelliere della riunificazione”, il cristianodemocratico Helmut Kohl, si è spento ieri a 87 anni nella sua casa di Ludwigshafen. Leader della CDU, il partito dell’attuale Cancelliera Angela Merkel, Kohl ha governato continuativamente dall’ottobre del 1982 all’ottobre 1998. Un lungo “regno” che ha coinciso con i decenni chiave in cui sono state poste le basi della moderna Repubblica federale, frutto dell’inaspettata riunificazione con la parte orientale dopo il crollo del Muro di Berlino e il collasso dell’ordine internazionale che aveva contraddistinto il secondo dopoguerra. “Un grande tedesco, un grande europeo” ha commentato a caldo su Twitter il portavoce di Frau Merkel, Steffen Seibert, ricordandone in una frase il doppio merito di aver guidato la ricostituzione della Germania e ispirato con il suo pragmatico europeismo l’avanzamento del processo di integrazione europea, a partire dall’euro.
“Il gigante nero”, così soprannominato per la sua figura imponente e per le maniere bonarie da tedesco di provincia, sarebbe stato ricordato probabilmente come “un buon Cancelliere” della Germania Ovest degli anni Ottanta, se le correnti imprevedibili della Storia non lo avessero posto senza preavviso al centro di un fatale rimescolamento di carte. Occasione che seppe cogliere con spregiudicatezza, come dimostrato plasticamente quando propose ad un Parlamento incredulo i suoi dieci punti per una rapida integrazione dei due Stati tedeschi, battuti nella notte dalla moglie Hannelore su una macchina da scrivere portatile. Per non parlare della capacità di farsi garante a livello internazionale di una decisione che rimetteva in discussione un assetto postbellico volto a mantenere sotto controllo una Germania dimezzata e depotenziata, al riparo dalle tentazioni egemoniche che ne avevano così drammaticamente contraddistinto la storia recente. Un uomo, Kohl, che può essere a tutti gli effetti definito il “padre” della Germania moderna e che si è potuto fregiare allo stesso tempo del titolo di “cittadino onorario dell’Unione Europea”. Un politico, infine, che non è stato alieno dalle bassezze e dai compromessi che sono resi necessari dalla spietatezza di ogni carriera politica: la ferma reazione contro ogni tipo di congiura ai suoi danni all’interno del partito, la capacità di tarpare le ali a tutti i potenziali successori e l’accusa di aver gestito fondi neri della CDU che ne ha provocato la damnatio memoriae degli ultimi anni. A sferrare il colpo decisivo che decretò la fine della sua carriera politica fu quella che i tedeschi definivano affettuosamente la sua “ragazza” preferita, una certa Angela Merkel, già Ministro e segretario del partito. Fu proprio un severo editoriale di Frau Merkel sulla FAZ a sancire, alla fine degli anni Novanta, la definitiva presa di distanza da Kohl della sua CDU e l’inizio della repentina ascesa politica della giovane scienziata venuta dall’Est.
Ad essere scomparso ieri è il volto di circa trent’anni di storia tedesca, con tutte le sue imperfezioni umane e gli errori politici. Al di là delle vicende personali, è la stessa rivista Spiegel a passare per esempio in rassegna, con il beneficio del tempo, i suoi passi falsi in campo economico: le timide politiche fiscali degli anni Ottanta e le scelte avventate del decennio della riunificazione possono essere viste come origine, in parte, della debolezza tedesca della fine dello scorso decennio. Quando la Germania era “il malato d’Europa” e ad alternarsi alla sua guida furono prima il socialdemocratico Gerhard Schröder (che sconfisse proprio Kohl alle elezioni del 1998) e poi la sua ex pupilla Angela Merkel, oggi a capo di una locomotiva economica rimessa a lucido, ma riluttante ad assumersi doveri da potenza-guida. Ciò non va però ad intaccare un sentimento unanime che sembra pervadere le prime pagine e i siti web dei quotidiani: la consapevolezza di aver perso un autentico “statista”.
Termine abusato in Italia e spesso provocatoriamente utilizzato per sminuire quei leader politici che appaiono invece troppo ossessionati dalle scadenze elettorali e dal mantenimento del consenso. Oppure utilizzato con sottile cautela, timorosi di concedere eccessive patenti di legittimità a figure politiche troppo controverse. Fu uno statista Aldo Moro, vilmente assassinato dalle Brigate Rosse ma anche artefice di immaginifiche (quanto spesso incomprensibili ai più) strategie politiche? Fu uno statista Enrico Berlinguer, leader carismatico della sinistra italiana ma mai davvero misuratosi con la prova del governo? Fu uno statista Bettino Craxi, animale politico per eccellenza ma anche involontario simbolo della drammatica fine della Prima Repubblica? Fu uno statista Giulio Andreotti, emblema della continuità delle istituzioni ma anche esempio di sbandierato (e per questo indigesto) cinismo? Al netto delle personali convinzioni, è facile per ogni tedesco passare oggi in rassegna i volti degli otto Cancellieri che si sono succeduti a Bonn e poi a Berlino, soppesandone i meriti storici e le debolezze.
Per noi italiani, ad eccezione forse di qualche figura storica divenuta trasversale (Alcide De Gasperi, Luigi Einaudi) e degli ultimi Presidenti della Repubblica (Pertini, Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Napolitano), le istituzioni appaiono spesso popolate da frettolosi inquilini temporanei e mai da leader che ambiscono a farsi artefici del destino del Paese. Anche per via di un sistema elettorale e di un assetto costituzionale che difficilmente incoraggiano la continuità e la stabilità dei mandati, complice forse l’influsso di sospetti mai sopiti verso “l’uomo forte” di turno.
Eppure un Kohl non guasterebbe: umanissimo, umorale e platealmente attaccato al suo ruolo, come è naturale che sia. In grado, però, di gettare il cuore oltre l’ostacolo quando la Storia ha bussato alla sua porta.
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