Storia

Perché la sinistra è scissionista? Un quadro storico e alcune possibili risposte

4 Gennaio 2018

Emanuele Macaluso, 93 anni, comunista di lungo corso, e,  dopo la scomparsa del PCI,  uomo di sinistra  ragionante con punte di indiscutibile autonomia di pensiero pur avendo pensato sempre all’interno di un gruppo (dirigente), nel rispondere alla domanda “perché ci si separa a sinistra?” ha dato due risposte. La prima: «Si litiga e ci si separa quando l’ambizione personale, che pure è legittima in politica, prevale sulla necessità della collegialità, quando trionfa il personalismo». È una spiegazione parzialmente tautologica perché legherebbe la causa delle scissioni alle persone, ma ha la sua ragion d’essere.  Ogni organizzazione, tanto più un partito, è formato da persone. Anzi, le persone nei partiti sono il punto di coagulo di tendenze specifiche, prettamente politiche. Sono “personalità”, incarnano orientamenti ideali non solo caratteriali: ci sono stati perciò legittimamente i brissotiani, i lassalliani, i gramsciani, i bordighisti, i turatiani ecc.

La seconda  risposta è più interessante perché tenta una spiegazione di tipo storico che però sconfina in una vaga biologia: «Il socialismo italiano è nato nell’anarchismo. (…) io credo che la storia tormentata del socialismo sia stata segnata proprio da questo e ancora oggi il Dna anarchico giochi un ruolo».

Il virus anarchico. Macaluso parte da una spiegazione storicista, vichiana: “Vuoi capire la ragione intima di un fenomeno, la su ratio?” Ebbene, ti devi spiegare com’è nato quel fenomeno e farne la storia. Il suo significato sta nel suo sorgere, nelle sue radici. Resta per Macaluso nella storia della sinistra italiana una “dna anarchico”, che deve essere inteso come un retaggio permanente, una sorta di “virus”, che è rimasto dentro la tradizione della sinistra e la dirige e la condiziona segretamente.

Gli anarchici si differenziavano dai socialisti (e ancor più dai marxisti) per la diversa concezione che avevano dello Stato, e di contro anche del partito, del quale non avevano alcuna concezione se non la più piena avversione. In buona sostanza consideravano i socialisti degli statalisti mentre i socialisti lanciavano contro di loro la peggiore accusa per una organizzazione fortemente strutturata, ossia quella di “spontaneismo”. Credo tuttavia  che Macaluso dia al termine “anarchico” una accezione più metastorica, meno legata alle vicende della sinistra italiana nonostante il preciso richiamo, ossia  come una tendenza fortemente individualistica, un’inclinazione persistente nella sinistra a ragionare per conto proprio, a non fare gruppo, squadra, partito. Perciò conclude che c’è nella sinistra un   filo conduttore,  una difficoltà di fondo: «l’impossibilità di concepire il partito come una casa in cui convivono molte anime nella cornice di un obiettivo comune».

Ma alle belle e calde parole di  Macaluso che tuttavia non spiegano tutto l’arcano dello scissionismo della sinistra,  vorrei aggiungere sul tema un’osservazione di Leonardo Sciascia (“Pirandello e la Sicilia”, Caltanissetta 1983). Il quale discutendo di Fasci Siciliani sottolineava che in tale movimento sociale prevalevano “caratteri e particolarità più di movimento anarchico che di movimento socialista (pur considerando l’indifferenziazione storica che nelle masse più arretrate potevano ancora avere anarchia o socialismo)”. Sciascia vuol dire che a questi livelli ultra-popolari non arrivavano le encicliche, gli scismi, le logomachie dei sinedri dei congressi, degli orientamenti ideologici degli intellettuali. A livello popolare si  coglie piuttosto il sentimento di rivolta, le parole d’ordine, la solidarietà tra gli sfruttati, il bisogno di coesione nella lotta, dove, tra le masse e gli indotti, il diverso orientamento ideale dell’anarchico rispetto ai fini ultimi della società futura  poteva trovare risonanza anche  il suo gesto solitario e spontaneista.

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Se si guarda indietro la vicenda storica della sinistra italiana, dalla fondazione del partito socialista italiano (1895, nel 1892 a Genova si chiamava ancora “Partito del lavoro”) fino a oggi, assistiamo a una tendenza forte e permanente al frazionismo, allo scissionismo, alla separazione, alla rifondazione, con conseguente e ricorrente  “svolta del rilancio e  rilancio della svolta”. Benché negli ultimi tempi, a quel che è dato notare, la voglia di buttare all’aria questo strampalato “cubo di Rubik” che è la sinistra  sia tanta e attraversa molti animi di militanti,   non si possono assumere toni irridenti,  perché la tendenza frazionista della sinistra italiana ha avuto esiti più drammatici che farseschi  nella nostra storia.

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La sinistra da tendenza a partito politico. La fondazione del Partito socialista, e dico proprio la fondazione del partito in sé, si presentò come fattore coesivo, in quanto fu  uno dei rari momenti (la nascita  del PD nel 2007 è anche uno di questi) in cui la sinistra italiana aggregò piuttosto che dividere tendenze, movimenti, strutture fino ad allora sparse, e diede luogo a un partito strutturato, moderno, benché radicato inizialmente solo nel Nord Italia e segnatamente in Val Padana. Fattosi partito il socialismo cessò di essere una tendenza, si strutturò in un organismo pensante ed operante, con le sue sezioni, i suoi organi di stampa, i suoi frequentissimi congressi, ma anche la sua “logomachia delle tendenze” come si diceva allora, ossia le sue correnti, i suoi personalismi  o le sue forti personalità. Il partito degli inizi non ancora ideologizzato (sorretto da un marxismo generico, ma non insensato o sciocco, come quello di Turati), non ancora egemonizzato da dottrine forti  o opzioni assolute come avverrà in seguito, ma piuttosto legato alla “tradizione civica”,  alla capacità di fare lega, di sviluppare rapporti coesivi e combattivi (tratto che secondo lo studioso Robert Putnam risaliva al Medio Evo), viveva immerso in un’atmosfera di grande fascino come si legge in una nota Facebook di un giovane e brillante critico letterario italiano, Matteo Marchesini, che di questo proto-socialismo italiano sottolinea:  «I suoi momenti più alti sono stati proprio quelli del vituperato, “stupido” passaggio tra XIX e XX secolo: il tempo dell’ingenua Seconda Internazionale, delle leghe ancora un po’ bakuniniane o mazziniane, delle università popolari e delle dispense positivistiche, degli operai o degli artigiani autodidatti che avrebbero poi conservato a lungo in qualche baule un Hugo e uno Zola, un Gorkij e un London…».

Ma tornando alla nostra domanda sullo scissionismo di sinistra, se la colpa non è del tutto dei personalismi e degli anarchici occorre cercare altrove.

Nella storia della sinistra le scissioni iniziano subito all’alba del secolo scorso, nei primi del ‘900. Il primo movimento fortemente frazionista fu quello dei sindacalisti rivoluzionari che erano dei socialisti piuttosto atipici,  ossia liberisti in economia (seguivano Maffeo Pantaleoni e invitavano Vilfredo Pareto a scrivere sulle loro riviste), anti-intellettualistici benché composto da intellettuali, “immediatisti”, soggiogati dal “mito” soreliano dello sciopero generale e “rivoluzionari senza socialismo” (Marco Gervasoni). Ma il frazionismo inaugurato dai sindacalisti  proseguirà per tutto il primo ventennio del secolo, prima della gelata fascista del ’26.  Dopo i sindacalisti rivoluzionari i  massimalismi e gli oltranzismi nella sinistra italiana non si contarono: proseguirono con veemenza con lo stesso fondatore del fascismo, Benito Mussolini,  che nel 1913, ancora socialista,  diede al massimalismo, come annota lo storico Roberto Vivarelli, “toni e modi” che verranno fatti propri da tutto l’estremismo socialista che da allora si abbatté sul movimento operaio. Un massimalismo e un oltranzismo che secondo le ricostruzioni di storici come De Felice o lo stesso Vivarelli,  che facevano tesoro delle  intuizioni di Angelo Tasca, fu l’elemento scatenante che determinò la reazione fascista e l’avvento del regime.

Nel secondo dopoguerra il frazionismo si aggregò attorno ai due tronconi storici della sinistra italiana (comunisti e socialisti riformisti), ma fu a partire dal ’68 con l’avvento della “Nuova sinistra” extraparlamentare, che le correnti si moltiplicarono come specchi rotti.

Da questo breve quadro storico si potrebbero ricavare alcuni  profili sintomatici che ci aiuteranno   a rispondere alla domanda iniziale “Perché la sinistra è scissionista”?

a)   Il leaderismo. Nonostante che la sinistra sia un movimento collettivo prevalentemente razionale e dovrebbe per questo essere allergica agli umori o all’urto delle personalità, in una parola alla “personalizzazione” della politica (personalizzazione dagli intellettuali di sinistra in genere stigmatizzata in aggregazioni politiche populiste   come il berlusconimso, il grillismo,  il peronismo e lo stesso fascismo) nei fatti il leaderismo, ove più ove meno, è una piaga nascosta nei mali della sinistra. Cacciata dalla porta la figura del leader ritorna dalla finestra prepotentemente. “Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer” scandivano nelle piazze i comunisti italiani, che pure erano i più refrattari alla personalizzazione. La “logomachia delle tendenze”, legata ai “nomi” dei politici del partito (come ci furono i brissotiani, i lassalliani, ci furono gli ingraiani, gli amendoliani) e le personalizzazioni hanno sempre funto da elementi di diversificazione dell’Idea politica, seppur ricomposta nei centralismi democratici. La “ferrea legge dell’oligarchia” di Robert Michels ha funzionato a pieno regime anche nei partiti di sinistra, ove il leaderismo si è coniugato con la  formale (perché nei fatti ha sempre funzionato un ferreo “centralismo democratico”) libertà democratica di dissentire, libertà più conculcata nelle aggregazioni di destra.

b)      L’exacerbatio cerebri. Se nella destra forte è l’interesse, nella sinistra, configurandosi essa come progetto per il futuro (la città futura, il sol dell’avvenir), dirimente è l’ideale. È per questa ragione che la sinistra è fortemente “normativa”, propone e spesso impone “visioni”, “ideali”, correttivi della stessa  pianta-uomo, specie in un’epoca come la nostra in cui ha percorso il sentiero all’inverso e da partito politico o da istanza prettamente politica si è rifatta tendenza e vaga percezione dell’Assoluto o di una idea di bene astratta e senza appigli nella realtà, come nella questione dell’accoglienza degli immigrati, pretesa senza deroghe e senza limitazioni.

Per dirla nei termini della filosofia greca questo ideale continuamente rincorso dalla sinistra  è la dialettica del nomos contro la fusis, della legge o convenzione contro la natura;  o, per dirla con Shakespeare, della norture contro la nature, ossia l’idea che si possa correggere con l’educazione e con la cultura quello che sembra il dato naturale dell’uomo. Se per la destra la società è esattamente come la natura, ossia   homo homini lupus, o  il luogo in cui “l’uomo dimentica più facilmente la morte del padre che la perdita del patrimonio” come avvertiva Machiavelli, la sinistra spesso si configura come arcigna correzione di questa  natura (la natura è “di destra” poiché  ci dà del mondo l’idea di una giungla, dove prevale la legge del più forte o del più adatto: darwinismo sociale). Nella sinistra pertanto forte è la mozione a proporre  l’uomo non come è, ma come dovrebbe essere. Da qui una sempre insoddisfatta pedagogia,un  broncio rivolto alle meschinità del proprio tempo, quell’aria censoria che nasconde un moto di  repressa violenza quando non esplode come tale,  rivolto verso chi  non condivide la propria visione.

Ma se l’uomo e la società sono tutto ciò, nelle visioni correttive e alternative della sinistra si scatena l’oltranzismo e la guerra del “Sommo Bene”, perché non raffigurando il mondo nelle sua realtà effettuale  ma nella sua proiezione ottativa, fatale è che si scateni la lotta dialettica (senza fine)  tra le varie  visioni, tra le molteplici prefigurazioni della società futura: la guerra dei mondi possibili. In questo ambito  gli intellettuali giocano la propria personale partita, che spesso è esasperata e arzigogolata come un arabesco, o come una disputa teologica. Molte correnti spirituali e orientamenti ideali perciò vi si scontrano. Le varietà del marxismo non si contano sul piano teorico,  e sul piano politico, solo per dare un esempio,  il PCdI all’atto del suo costituirsi nel 1921 fu il risultato di ben tre componenti,  mentre  a partire degli anni Sessanta del secolo scorso si contarono forme di marxismo eclettico davvero impressionanti per numero e configurazioni dottrinarie (maoisti, stalinisti, guevaristi, terzinternazionalisti, trotzkisti (quarta internazionale), ecc. ecc.

Nella sinistra, forte  perciò è stata la scolastica ideologica con i corredi impliciti: divisioni, eresie, scomuniche, anatemi, demonizzazioni che spesso riguardano più i prossimi che i lontani. Craxi per Berlinguer era un bandito. Un bordighista è per un gramsciano più pericoloso che un fascista, un socialista per un comunista lo è più di un democristiano, e oggi un aderente di “Liberi e uguali” per un elettore  del Pd è più ostile  che un destro di Forza Italia, ma anche viceversa.

c)    Il masochismo. «È perché abbiamo  perso che abbiamo vinto». È un meccanismo psichico-politico spiegato molto bene da Jean-Philippe Domecq  in  Cette obscure envie de perdre à gauche – Denoël, Paris 2012 (Questa oscura voglia di perdere a sinistra) di cui qui di seguito sintetizzerò l’analisi.  «La sinistra, scrive Domecq, non ama il potere. Non ama per nulla questa cosa: “il Potere” come essa solo lo sa pronunciare, e come non lo pronuncia  mai la destra… Detto in altro modo, la sinistra perde per colpa della sinistra… C’è sempre qualcosa, sempre una buona ragione di sinistra, di essere contro, la sinistra. Di preferire l’opposizione, l’ideale, l’impotenza». [Anni fa lo stesso D’Alema raccontava questa sindrome allorché dopo una vittoria elettorale una vecchina gli si avvicinò e gli disse «Compagno D’Alema, finalmente possiamo fare una durissima opposizione»].

Come si chiama quel fatto  psichico di veder sopraggiungere ciò che si teme, e fare in modo che esso accada ugualmente? Domecq lo battezza con il termine preso in prestito dalla psicoanalisi: masochismo. Che si rivelò ampiamente durante le presidenziali americane del 7 novembre 2000 perse dal leader di “sinistra” americano Al Gore. La sconfitta della sinistra americana  di Al Gore  avvenne per  537 contestatissimi voti (il famoso riconteggio della Florida) che diedero la vittoria a George W Bush jr. Il quale, vinse non certo per questo risicatissimo margine di scarto nei voti, ma perché un pezzo di sinistra americana, ben 2.834.410 elettori,  votò per  l’esponente ecologista Ralph Nader di cui si sapeva  perfettamente che non avrebbe avuto alcuna chance di vittoria.

Qualche spiegazione più particolareggiata fa capolino nell’analisi di Domecq.  La sinistra vuole il Bene, e già questo spiega perché essa non raggiunge il potere, che si inscrive nell’orbita del relativo e non dell’assoluto. E proprio questo  che non fece vedere agli elettori di Nader  il pericolo della loro scelta.  Erano elettori masochisti. Gli elettori di Nader respingono questa impostazione anche quando li si mette davanti alla responsabilità del loro errore di giudizio. C’è una malafede nella fede, soprattutto nella sinistra radicale, aggiunge il saggista francese.  Altro corollario del masochismo. La voluttà  di essere “contro” è tutto ciò che vuole colui che vota contro ciò che vuole. E qui che si colloca la sinistra radicale «la sinistra insoddisfatta della sinistra, questa sinistra talmente esigente che preferisce che tutta la sinistra perda piuttosto che vederla non compiere […] ciò che la sua  piccola cerchia esige». La sinistra si oppone alla sinistra, mentre invece la destra fa blocco. La sinistra è concentrata  sulle proprie delusioni, che si rinnovano a ogni scadenza. La destra non perde mai la bussola e punta sempre a ciò che conta: vincere e conservare il potere.  Entra dunque in azione un’etica dell’irresponsabilità e un’attitudine allo scacco della sinistra, che Domecq registra, dopo l’esperienza americana,  nella sconfitta del candidato socialista francese Lionel Jospin per mano della sinistra radicale francese  che il 21 aprile 2002 non lo votò preferendogli i suoi candidati e lo fece arrivare dietro a Le Pen. Ce n’è anche per noi italiani, e Domecq cita la caduta del primo governo Prodi avvenuta per un voto il 9 ottobre 1998.  «Non è glorioso in virtù di un  “più a sinistra” pugnalare tutta la sinistra per far tornare una destra dai denti affilati»?

In quali di questi profili sintomatici cadrà la sinistra italiana il 4 marzo 2018 ?

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Vedi anche:

<<< Sul masochismo della sinistra e sul libro di Domecq

<<< Cos’è la sinistra oggi dopo la perdita di Sesto San Giovanni

<<< La fine della sinistra francese

 

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