Storia
Per non dimenticare cosa è stato il fascismo: una testimonianza nel Salento
159534 è il numero con cui era identificato Nicola Gaetano Santoro durante la prigionia nel campo di lavoro tedesco di Treunbritzen. Nicola, nato a Cursi in provincia di Lecce nel 1924, fu chiamato per la leva obbligatoria nel giugno del 43. La mansione era marconista e la destinazione Udine: dalla fine dell’Italia al suo inizio (Tarvisio e il valico per l’Austria).
Ho avuto la fortuna di incontrarlo in questa estate salentina e di ascoltare il suo racconto di sopravvissuto alla barbaria nazifascista.
Pochi mesi dopo il suo arrivo in Friuli, fu firmato l’armistizio con gli Alleati.
Subito dopo l’8 settembre i tedeschi circondarono la caserma e ai militari italiani fu dato l’ordine di consegnare le armi.
“Alcuni pensarono che la guerra fosse finita, ma i più anziani piangevano perché si resero subito conto che non era così. Fummo caricati su un carro bestiame e ci dissero che saremmo andati Bolzano e poi a Verona per il congedo illimitato”.
Ascoltarlo, lucido nel ricordo, raccontare di fatti che sono sui libri, turba ed emoziona al tempo stesso.
“Era tutto falso, – prosegue Nicola- il convoglio era diretto in Germania. Alla fine di un viaggio di cinque giorni, senza cibo né acqua, arrivammo in Olanda e restammo in attesa di essere smistati verso Treuenbrietzen, dove c’erano le fabbriche di armi del Reich, di cui una completamente sotterranea.”
Lo status con cui furono internati era quello di I.M.I. (internati militari italiani), frutto di un accordo tra Mussolini e Hitler.
Non erano prigionieri di guerra ma manodopera a basso costo che il fascismo passò alla Germania. Poi, successivamente, fu chiesto loro di aderire alla RSI con uno stratagemma. I prigionieri ricevettero un foglio (scritto in tedesco) in cui si chiedeva l’adesione e una saponetta, la ricevuta per il sapone divenne l’adesione
In un secondo momento, fu, poi, loro tolta la divisa militare italiana, per farli diventare “civili”. In questo modo persero la condizione di prigionieri di guerra che garantiva gli aiuti della Croce Rossa.
La Storia (con la esse maiuscola) si mischia con le storie di chi ha vissuto quei giorni.
Nel campo le razioni di cibo erano scarsissime; periodicamente i prigionieri erano pesati e chi scendeva sotto i quarantacinque chili, o si ammalava, faceva una brutta fine.
Per riuscire a sopravvivere ci si metteva dei sassi in tasca prima di salire sulla bilancia.
La vita del campo era complicata e ci si ingegnava per cercare di migliorare la condizione quotidiana e avere notizie dall’esterno: alcuni ingegneri riuscirono, con pezzi di fortuna, a costruire una radio, ma mancava l’energia per farla funzionare. Con una certa destrezza riuscirono a rubare la dinamo dalla bicicletta di un militare tedesco; la radio funzionò e così vennero a sapere, nel giugno 44, dello sbarco alleato in Normandia.
“Sopravvivere nel campo era difficile e per vincere la fame e avere un pezzo di qualcosa in più, si era disposti a rischiare la propria vita. Riuscimmo a rubare delle patate dure per il freddo (-18 gradi) con un timore tremendo, chi veniva scoperto era passato per le armi o subiva punizioni molto severe.”
I mesi passarono, sino a quando “il 21 aprile 45 arrivò l’Armata Rossa che, con un drappello di uomini non troppo consistente, liberó una cittadina vicino al campo: Belzig. Il giorno dopo fu la volta di Treuenbrietzen. Ma non era finita, i russi erano in pochi e i tedeschi riuscirono a riprendere il campo vicino al nostro, quello della fabbrica sotterranea tanto ricercata dagli anglo-americani.
Le SS divisero i prigionieri per nazione, agli italiani fu consegnata una cassa di munizioni a testa, furono fatti camminare per qualche chilometro e poi in un bosco, le SS aprirono il fuoco: 127 italiani furono trucidati a sangue freddo e finiti con il colpo alla tempia.”
Nessuno si ricorda di loro e i quattro che sopravvissero, riuscirono a salvarsi perché si buttarono subito a terra e si finsero morti.
Ascolto e vedo i suoi occhi che si fanno lucidi quando ricorda quei momenti, quelli della libertà ritrovata.
Il ritorno a casa fu roccambolesco, nazioni da attraversare a piedi, più tutta l’Italia per arrivare nel Salento, nel tacco con un’inseparabile compagna di viaggio: la fame. E qui si innescano i ricordi del prete che diede i biscotti o del pane comprato alla borsa nera.
“Arrivai a Cursi il 10 luglio, il giorno della festa della Madonna, i miei paesani fecero fatica a riconoscermi per quanto ero magro. Andai subito in chiesa e quando uscii, fui accompagnato a casa da tutto il paese e potei abbracciare la mia famiglia. Purtroppo a chi mi chiedeva notizie dei suoi cari non riuscivo a darne.”
Da allora Nicolino continua nel suo impegno antifascista, prima in politica e poi portando la sua testimonianza, di quel periodo tremendo, nelle scuole.
“È necessario che le nuove generazioni comprendano cosa sono stati la guerra e le dittature.”
Nel gennaio 2010 gli è stata conferita la Medaglia d’onore dal Presidente della Repubblica.
È necessario ricordarsi di cosa fece il fascismo, non si può permettere che venga fornita una visione opportunistica di quello che avvenne.
Aver incontrato Nicola mi ha permesso di riparlare, utilizzando una fonte di prima mano, di quello che fu un periodo della storia d’Italia del quale in troppi, ancora oggi, pensano che vada messo dietro le spalle. Trovo, invece, che sia maledettamente attuale e parlarne aiuti a vaccinarci dal decisionismo a buon mercato.
Nella foto Nicola Gaetano Santoro
Per saperne di più
https://www.cursisalento.it/libri/internato-159534/
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