Storia

Pastiche partigiano

25 Aprile 2015

Avevo scritto un articolo per questo 25 aprile, poi ho deciso di buttarlo. In parte perché le cose che volevo dire le ha scritte in maniera impeccabile Vanessa Roghi. In parte perché, tutto sommato, non mi interessano molto le polemiche attuali – che considero per molti versi fisiologiche per un rito collettivo che non ha nulla di irenico, ma che è sempre stato il palcoscenico naturale in cui mettere in scena le divisioni che attraversano il corpo sociale.

Soprattutto perché credo che ciò che merita attenzione sia la nostra difficoltà a comprendere appieno il senso svolto allora dalla violenza. Violenza, morte, disponibilità al sacrificio sono dati essenziali e irrinunciabili per capire il senso della guerra partigiana e il senso della battaglia antifascista.

Ha osservato Benjamin che “scrivere storia significa citare storia”, di seguito mi limiterò a presentare un pastiche di citazioni tratte da diari, romanzi, articoli redatti da esponenti del mondo antifascista durante la lotta e nell’immediato dopoguerra.

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«Senza i morti, i loro e i nostri, nulla avrebbe senso»
(B. Fenoglio, Il partigiano Johnny I, in Id., Romanzi e racconti, a cura di D. Isella, Einaudi, Torino 2001, p. 537)

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“Una guerra, qualsiasi guerra, sollecita e richiede un altro elemento, di sopraffazione, di iniziativa violenta, che lievita nei combattenti, consuma e dissocia le premesse abitualmente fondate della vita civile. Alle radici della guerra partigiana c’è questo elemento oscuro e selvatico giustificato sì dalla legge stessa del nemico ma che come semplice rappresaglia non si spiega. È piuttosto una liberazione spontanea e improvvisa di energie umane dalle macerie di una catastrofe definitiva, l’istinto o la coscienza di non aver più riparo nel passato. Né garanzie né impegni, e di doversi perciò riconquistare un posto e una ragione di vita con la violenza, sola arma superstite di una società senza avvenire e senza leggi. Questo richiamo all’azione violenta da parte di un mondo deserto, svuotato di tutto che non sia minaccia e rovina, spiega quel buttarsi dei singoli allo sbaraglio prima e la graduale diffusa mobilitazione poi della guerra partigiana in Italia”

(C. Dionisotti, Letteratura partigiana (1946) ,in Id., Scritti sul fascismo e sulla Resistenza, Einaudi, Torino, 2008, p.186)

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«E perché sono venuto tra i partigiani? Non certo per senso del dovere […]. Sono venuto per provare nuove sensazioni, per non apparire un vigliacco […]. Sono venuto per sport, per curiosità, per divertimento. Perché a casa mi annoiavo. Perché non volevo mancare un’occasione. Sono venuto sapendo che le circostanze mi avrebbero potuto costringere a sparare e a uccidere; anzi, desiderando con tutta l’anima di trovarmi a dover sparare e uccidere […] E così mi sono perduto. Ho distrutto la mia anima, mi sono macchiato le mani di sangue.»
[Ciononostante Fausto] «sentiva che, malgrado tutto, egli era orgoglioso di aver fatto il partigiano, era orgoglioso di aver sparato e di aver ucciso, e non avrebbe voluto che quei fatti fosse cancellati dalla sua vita»

(C. Cassola, Fausto e Anna, Rizzoli, Milano, 2000 [ 1952], pp. 250–251)

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“La vita di un bandito è molto complicata e succedono infiniti incidenti. Per esempio […]  un partigiano ubriaco litiga con un carabiniere e vien portato in carcere per qualche ora, poi rilasciato; un altro ingravida una ragazza: bisogna scrivere questi fatti, perché fra qualche decennio una nuova retorica patriottarda o pseudoliberale non venga a esaltare le formazioni dei purissimi eroi: siamo quello che siamo: un complesso di individui in parte disinteressati e in buona fede, in parte arrivisti politici, in parte soldati sbandati che temono la deportazione in Germania, in parte spinti dal desiderio di avventura, in parte da quello di rapina. Gli uomini sono uomini. Bisogna cercare di renderli migliori e a questo scopo per prima cosa giudicarli con spregiudicato e indulgente pessimismo. In quasi tutte le mie azioni sento un elemento più o meno forte di interesse personale, egoismo, viltà, calcolo, ambizione, perché non dovrei cercarlo anche in quelle degli altri? Perché ritrovandolo dovrei condannare severamente?”

Può essere che in futuro questo mio spregiudicato e pessimistico diario possa fare cattiva impressione: si dica che io, arrampicandomi per la montagna, mi fermavo a osservare sterpi e sassi – i brutti episodi son numerosi – e non guardavo la vetta o il paesaggio. Errore, errore. Se non vedessi vetta o paesaggio, non farei la dura salita, ma per timore di retorica preferisco tacere gli alti ideali

(E. Artom, Diari di un partigiano ebreo, a cura di G. Schwarz, Bollati-Boringhieri, Torino, 2008, rispettivamente p. 61 e p. 146)

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“Il nemico stesso ci aveva educato alla morte, ci aveva consegnato, scarnito e solitario, il suo più cupo impulso. L’odio che l’aveva [il soldato tedesco] portato fino a quel punto giaceva in lui come sommerso da un solido strato d’indifferenza e di disprezzo: sembrava essersene liberato, dando a noi tutto il suo peso, attribuendoci quegli inumani lineamenti che erano in lui celati dalla maschera del soldato.
La nostra peggiore condanna […]: espiare anche per lui, invidiargli, senza avere il coraggio di confessarlo, quelle stesse apparenze d’uomo normale, ossia soggetto a una serie logica e continua di convenienze, che erano state distrutte in noi.
Mai più uomini come gli altri, mai più capaci di godere la purezza di un affetto o la serenità di un riposo”

(R. Battaglia, Un uomo, un partigiano, Il Mulino, Bologna, 2004 [1945], p. 113)

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“Se distogliamo per un momento lo sguardo dagli avvenimenti quotidiani, e lo rivolgiamo a quel tempo ormai mitologico in cui il progresso umano pareva necessario e senza fine, e in cui ci si era dimenticati della morte, l’evidenza del mutamento ci apparirà come quella di una crisi totale, di una frattura fra due civiltà. [….] La morte, e il senso della morte, si è interposta fra noi e i nostri pari. Non sapremo più dimenticarci della morte.

Le famiglie sono disperse, le case devastate, le proprietà distrutte, gli Stati sconvolti. Se queste rovine fossero soltanto materiali, il mondo tornerebbe rapidamente quello che era. Ma il vecchio senso della famiglia è perduto, il vecchio senso della casa è mutato, il vecchio senso della proprietà non regge più, il vecchio senso dello Stato ha perso ogni potere. E qualcosa di anche più profondo è cambiato nell’animo degli uomini, qualcosa che è difficile definire, ma che si esprime inconsapevolmente, in ogni atto, in ogni parola, in ogni gesto: la visione stessa del mondo, il senso del rapporto degli uomini con sé stessi, con le cose e col destino .”

(C. Levi, Crisi di Civiltà, «La nazione del Popolo», 12–13 settembre 1944, senza firma ma di Carlo Levi. Ora riprodotto in P. L. Ballini (a cura di), La Nazione del Popolo. Organo del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (11 agosto 1945–3 luglio 1946), Regione Toscana, Firenze, 1998, pp. 233–234.)

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“Pin cammina con la zappa in ispalla portando il falchetto ucciso con la testa penzoloni. Traversa i campi di rododendri, un tratto di bosco, e è nei prati. Sotto i prati che salgono per il monte a gradini smussati, sono seppelliti tutti i morti, con gli occhi pieni di terra, i morti nemici e i morti compagni. Ora anche il falchetto.
Pin cammina per i prati, con strani giri. Non vuole, scavando una fossa per l’uccello, scoprire con la zappa un viso umano. Non vuole calpestarli nemmeno, i morti, ha paura di loro. Eppure, sarebbe bello scavare un morto dalla terra, un morto nudo, con i denti scoperti e gli occhi vuoti.
Pin non vede che montagne intorno a sé, valli grandissime di cui non s’indovina il fondo […]. Pin è solo sulla terra. Sotto la terra, i morti. […] Pin scava una fossa per il volatile ucciso. Basta una piccola fossa; un falchetto non è un uomo. Pin prende il falchetto in mano; ha gli occhi chiusi, delle palpebre bianche e nude, quasi umane. A cercare d’aprirle, si vede sotto l’occhio tondo e giallo. Verrebbe voglia di buttare il falchetto nella grande aria della vallata e vederlo aprire le ali, e alzarsi a volo […]. E lui, come nei racconti delle fate, andargli dietro, camminando per monti e per pianure, fino a un paese incantato in cui tutti siano buoni. Invece Pin depone il falchetto nella fossa e fa franare la terra sopra, con il calcio della zappa”

(I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, in Id., Romanzi e racconti, vol. I, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, Mondadori, Milano, 2003, pp. 58–59)

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“La notizia [dell’esecuzione] mi colpì come una mazzata […]. Furore, angoscia e pietà: per lui, per i suoi, per tutti, per gli stessi suoi assassini, spinti dal brutale oscuramento di oggi, a un misfatto che non potrà esser loro perdonato. E […] provai il bisogno di far qualcosa, d’inutile, di puerile, ma che pur nel mio cuore aveva un senso, quale omaggio a quell’aura di civiltà e di gentilezza che oggi par cancellata dal mondo ma a cui si dovrà pur tornare se si vorrà continuare a vivere su un piano umano.

Vidi la sagoma dell’impiccato, sfiorai con le mani i suoi piedi nelle grosse scarpe da montagna (strano, pensai, che non glie le abbiano tolte!), deposi sotto di lui, sui gradini, il fascio d’inutili fiori, indugiai con una rapida carezza sulla fredda mano irrigidita. Poi m’allontanai senza più curvarmi; ormai avevo fatto quel che volevo e non m’importava più che mi fermassero; ero armata soltanto della mia umanità dolente, dell’angoscia che mi gonfiava il cuore, delle lagrime incontenibili, che mi traboccavano dagli occhi inondandomi il volto. 

(A. Gobetti, Diario Partigiano, Einaudi, Torino, 1996 [ 1956], pp. 174–75.)

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“Gli sciacalli fascisti s’impossessano dei cadaveri dei nostri due sfortunati e valorosi compagni, li trasportano a S. Ambrogio, nella cappella del cimitero, forse aspettano che andiamo a render loro l’ultimo saluto.

E noi andiamo. Partiamo in quaranta, di notte, camminando cautamente sulla mulattiera sassosa della Sagra. Siamo decisi a tentare tutto, pur di strappare loro il corpo del nostro comandante di Brigata e del suo garibaldino”

(P. Carmagnola, Vecchi partigiani miei, a cura di A. D’Arrigo, Franco Angeli, Milano, 2005 [1945], pp. 73–74.)

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“I nostri due compagni sono stati adagiati su uno spiazzo d’erba. Anch’essi hanno subito la sorte che subiscono tutti gli altri prima di essere impiccati e fucilati. Le loro orbite sono vuote, le bocche orribilmente deformate e così le dita delle mani. Sono stati strappati loro gli occhi, la lingua, le unghie dalle mani, una a una. I civili, donne e vecchi, vengono piangenti a buttare fiori di montagna sui nostri compagni. I partigiani sono muti, indicibile è l’espressione dei loro visi.

(Patrizio, Al Nord ci sono i partigiani, in «Mercurio»,(1944) 4, p. 285.)

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«chi quel gran giorno [il giorno della Liberazione] non sarà sporco di sangue fino alle ascelle, non venitemi a dire che è un buon patriota»

(B. Fenoglio, Una questione privata, in Id., Romanzi e racconti, cit., p. 1098.)

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“Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura di scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccende altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noi altri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce, si tocca con gli occhi, che al posto del morto, potremmo esserci noi: non ci sarebbe differenza, se viviamo lo dobbiamo a un cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile, ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione […] ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: e dei caduti che ne facciamo? Perché sono morti? Io non saprei cosa rispondere. Non adesso almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti e soltanto per loro la guerra è finita davvero.”

(C. Pavese, La casa in collina [1948], in Id., Tutti i romanzi, a cura di M. Guglielminetti, Einaudi, Torino, 2000, p. 484 )

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